sabato 30 gennaio 2016

Presentazione del libro L'INCONSCIO IN CLASSE di Marco Focchi


L'INCONSCIO IN CLASSE
I PROBLEMI DELLA SCUOLA AFFRONTATI A PARTIRE DALLA PSICOANALISI



Presentazione del libro  L'inconscio in classe. Il piacere di capire e quel che lo guasta
di Marco Focchi (Orthotes Editore)


Venerdì 12 Febbraio 2016
Ore 21.00

Società Umanitaria
Sala Bauer
via S. Barnaba 48 - Milano
Info e prenotazioni
tel 02 58324157

Intervengono
Pietro Barbetta, Roberto Caracci, Domenico Cosenza e Clotilde Leguil

Conversano con l’autore
Marco Focchi

Coordina
Giovanna Di Giovanni


 A chi lavora come consulente nella scuola vengono chieste soluzioni pratiche: un bambino con difficoltà di apprendimento deve poter imparare, una classe bloccata dai conflitti deve essere rimessa in condizioni di funzionare, un inserimento difficile deve essere facilitato e reso possibile. Se questi problemi vengono affrontati in modo tecnico, mimando la metodologia della scienza, e se le componenti della scuola vengono trattate come variabili di un’equazione, le soluzioni che ne risultano sono in genere inconsistenti. L’esperienza descritta nel libro è quella di uno psicoanalista che porta “l’inconscio in classe”, che fa valere cioè la soggettività delle persone, bambini, insegnanti, genitori, nella complessa rete di relazioni che si creano, che non appaiono mai “in chiaro” e vanno decodificate. Il modo di lavorare adottato in questa singolare esperienza è presentato, insieme alle riflessioni teoriche che se ne possono trarre, in diversi frammenti clinici e di osservazione. Particolare risalto ha l’ampia esposizione del caso con cui il libro si conclude, che dà un significativo contributo all’attuale dibattito sull’autismo: fuori dalla falsa alternativa tra un riduzionismo biologico (causalità genetica) e uno psicologico (madri frigorifero) l’autismo appare come la condizione di un soggetto preso in un intreccio in cui l’Altro perde la propria distanza simbolica traducendosi in un “no” nel reale.


sabato 9 gennaio 2016

Seminario del 14 febbraio 2015 Docente invitato: Vilma Coccoz

Presentazione di Isabella Ramaioli
Vilma Coccoz è una collega della Escuela Lacaniana de Psicoanálisis, membro dell’AMP, attualmente fa parte del Comitato “Azione Una” e all’interno dell’AMP coordina l’Osservatorio sulle Politiche sull’Autismo. Ha una pratica importante in istituzione, ha pubblicato molti lavori ed è docente del Nucep, l’istituto di insegnamento spagnolo all’interno del quale, recentemente, ha promosso una rete di consultazione analitica.
Proseguirà il nostro lavoro sul testo di riferimento di quest’anno: La terza, di Lacan.

Relazione di Vilma Coccoz
La “Red Psicoanalítica de Madrid” è un dispositivo di pratica per i partecipanti al Campo freudiano a Madrid che ha due finalità: facilitare le pratiche cliniche delle persone che studiano nel Campo freudiano e costituirsi come laboratorio di ricerca sullo stato della soggettività nel momento di crisi che oggi attraversiamo. È un’istituzione invisibile, come l’ha definita Alfredo Zenoni, ma con grande fondamento analitico.
Comincerò il mio commento con un sottotitolo: il vento lacaniano. A Lacan piaceva far riferimento agli elementi. All’apertura del Congresso di Roma del 1974 dove presenta La terza dice: «è a causa mia, per via di ciò che chiamo il vento…», e continua dicendo che apprezza da coloro che vogliono gonfiare le loro vele con questo vento il modo in cui prendono l’autenticità della propria navigazione. Esiste una maniera di gonfiare le vele della nostra imbarcazione autenticamente lacaniana e un’altra che non lo è. Per distinguerle possiamo riprendere la quarta questione del testo Television [Rif. in: Altri scritti, p. 516]. L’intervistatore chiede: «Sono vent’anni che lei propone la formula secondo cui l’inconscio è strutturato come un linguaggio, e che le si oppone, varie forme: “Sono solo parole, parole, parole. E di quel che non è inzeppato di parole, che ne fa? Quid dell’energia psichica, o dell’affetto, o della pulsione?». Lacan risponde: «Lei imita i gesti con cui nella SAMCDA (società di mutua assistenza contro il discorso analitico) si simula un patrimonio. Perché, come lei sa, almeno a Parigi, i soli elementi di cui ci si sostenti nella SAMCDA provengono dal mio insegnamento. Esso penetra dappertutto, è un vento che assidera quando tira troppo forte. Allora si torna ai vecchi gesti, ci si riscalda raccogliendosi a congresso». Questo comportamento è condizionato dal fatto che loro non vogliono sapere nulla del discorso che li condiziona.
Il vento lacaniano soffiava forte negli anni ‘70. Nel 1974 Lacan è invitato a Nizza a parlare del fenomeno lacaniano. A Lacan non sembra ben formulato discorrere di “fenomeno”, preferisce parlare di “effetti” lacaniani: ci sono alcuni “dire” che contano, che hanno effetti, e si tratta di vedere se i “dire” lacaniani hanno un effetto. Di questo si occupa la psicoanalisi, degli effetti della parola. Lacan constata che i suoi scritti si vendono, i lettori non capiscono niente ma qualcosa producono spremendosi le meningi cercando di decifrarli.
Nella conferenza stampa dell’ottobre 1974 un giornalista lo incalza: «Da quanto ho capito sulla teoria lacaniana, alla base dell’uomo non c’è la biologia o la fisiologia ma il linguaggio. Lo aveva già detto San Giovanni: in principio era il Verbo. Lei non ha aggiunto niente». Lacan risponde: «Io ho aggiunto qualcosina. Sono completamente d’accordo con il fatto che in principio era il verbo. Il dramma comincia però quando il verbo s’incarna, e da quando il verbo si incarna le cose cominciano ad andare davvero male: non si è felici in assoluto, non si assomiglia al cane che scodinzola contento, neppure alla scimmia che si masturba, non assomiglia in niente. Siamo devastati dal verbo».
La questione essenziale è in quale modo l’insegnamento di Lacan ha modificato completamente la pratica dell’analisi. Studiamo per sapere in quali punti e in quale modo il vento lacaniano ci serve per gonfiare le vele della navigazione, perché la materialità significante del testo lacaniano favorisca la sua funzione di trasmissione, di disseminazione, d’inseminazione non artificiale. Attraverso i corpi parlanti che siamo, prestando la nostra voce al suo messaggio, compiamo con il proposito lacaniano. Lacan considerava il proprio testo come delle lettere aperte, desiderava che ciascuno leggendole ci mettesse del suo. Dare aria ai testi dipende dalla nostra posizione.
Continuando con la metafora degli elementi, nella conferenza Il sintomo [in: La Psicoanalisi, n. 2], Lacan dice che se parliamo di navigazione essa si produce nell’acqua. Lacan parla delle acque del linguaggio, forse per il carattere informe, illimitato, e dice: «in quel mare del linguaggio, facciamo ciò che possiamo, prendiamo alcuni detriti, di alcune parole facciamo qualcosa, proviamo a darle una forma di barca che ci permetta di galleggiare, cioè non soccombere». Freud diceva che soccombere è facile ma non insegna niente. Naufragare è facile ma non serve. Nella pratica della psicoanalisi, intesa come una navigazione singolare, abbiamo bisogno delle carte nautiche lacaniane per orientarci e non naufragare. Ne La terza, Lacan si riferisce alla specificità del discorso analitico, del perché opera dove altri discorsi naufragano.
Qualche tempo fa ho avuto l’onore di presentare il libro di Martin Egge La cura del bambino autistico. Ho confrontato il lavoro dell’Antennina con un tipo di navigazione che si chiama “navigazione stimata”, diversa dalla navigazione lungo la costa. Quando si vede la costa si riesce a seguire la rotta con i fari, ma la navigazione stimata, non potendo avere come riferimento la costa, deve tenere in considerazione altri fattori come il vento e le correnti. Il punto cui si vuol arrivare con la navigazione stimata si chiama “punto di fantasia”. Dove vogliamo arrivare? È una domanda che riguarda la nostra pratica anche in un’istituzione come l’Antennina. In istituzione il punto di fantasia non è un porto standard, è un porto che si va formando al ritmo d’ogni bambino. È un passaggio che si realizza nella vita, nelle acque a volte tranquille e altre con correnti contrarie, una volta con vento a favore altre con vento contrario, in ogni momento possono sorgere sorprese, trovate, delle difficoltà… Per dispiegare le vele col vento lacaniano non possiamo risparmiarci delle difficoltà… per esempio scegliere il testo La terza per commentarlo.
Lacan inizia la conferenza La terza con un gioco di parole: la terza è la prima, fa come “un disco”. Il primo gioco di parole in francese è composto da “disco”, “dire che”, “dice cosa”. Un gioco d’equivoci nell’omofonia tra “disco”, “dire che” e comporre un numero nel telefono a disco. Questo modo di introdurre la conferenza dà un’idea del punto in cui Lacan intende collocare la sensibilità dei suoi ascoltatori, sensibilità rispetto a quello che si ascolta nelle parole. Nella parola, quando ascoltiamo, leggiamo per dare un senso.
Nel seminario Ancora si era riferito al discorso analitico dicendo che nel discorso si parla di qualcosa. Anche se occupa un posto limitato, resta chiaramente enunciato col verbo inglese “to fuck”. Dice: «e si dice che c’è qualcosa che non va. Si tratta di una parte rilevante di quel che viene confidato nel discorso analitico» [Il seminario, Libro XX, p. 30]. E Lacan sottolinea che non è un privilegio del discorso analitico, è anche ciò che esprime il discorso corrente, che suona uguale a “discorso di Roma”. Un altro gioco di parole lo fa attorno al discorso fuori campo, fuori d’ogni discorso e anche disco, che gira a vuoto. È il disco che si trova nel campo in cui tutti i discorsi si specificano e dove tutti naufragano, alla fine si parla di quello che costituisce il fondo della vita, quello che tocca le relazioni tra uomini e donne, quel che si chiama una collettività. È qualcosa che non va e tutto il mondo ne parla. Passiamo tutto il tempo a dire che non va, e con questo l’unica cosa seria è ciò che si ordina in modo distinto come discorso. Parlarne, lamentarsene, non facciamo altro, dice Lacan. In cosa si distingue il discorso analitico per operare?
Il discorso analitico si distingue per il modo in cui si ordina la faglia della quale tutti parliamo, e anche per il modo in cui si coglie il beneficio che si può avere da questa messa in ordine. In questo senso si capisce lo sforzo che Lacan fa, negli ultimi anni, per stabilire la differenza rispetto al discorso religioso. Il discorso analitico e religioso sono le due uniche di-mensioni, del dire-detto-disco, che si occupano della relazione problematica dell’essere parlante col godimento. Tutto il resto sono teorie, il discorso religioso e quello analitico no. Il discorso religioso interpreta la faglia in termini di peccato, il discorso analitico cerca di coglierne la logica per evitare il disorientamento, fare naufragio, quel che Lacan chiama lo smarrimento del godimento. Jacques-Alain Miller, nella presentazione del Congresso del 2016, ha detto che il fatto che sia permesso godere, a differenza del divieto di una volta (e ancor più che non permesso, l’incitazione, l’intrusione al godimento, la provocazione, la forzatura) non ha dato sollievo rispetto alla faglia del godimento.
Lacan continua dicendo che serve che qualcuno ascolti, dische, qualcosa di questo discorso di Roma, “disco dell’orso”, con riferimento a persona poco socievole, si tratta di un discorso di ciò che non va, “non socievole”, che non fa rapporto. Questo inietta un po’ di onomatopea nella lingua, la quale è vincolata ai limiti del sistema fonematico: in francese il discorso “di Roma”, “d’osso”, o l’“originario” in tedesco, drom è un suffisso preso dal greco che significa “pista”, come per esempio in “aerodromo”. Qual è la buona via? Se tutte le strade conducono a Roma, qual è quella giusta? Qual è la buona via lacaniana per orientare la nostra navigazione?
Il gioco di parole sul titolo permette a Lacan di collocare la voce nella rubrica degli oggetti a, separando il rumore, perché la voce può essere ascoltata come un rumore, svuotando la voce della sostanza, della materialità del rumore, e mettendola in conto all’operazione significante, cioè nella metonimia, come da un significante possiamo passare a un altro: disco, discorso, Roma, orso, ecc., un permanente slittamento metonimico. Lacan dice che a partire da qui la voce è libera di essere qualcosa di diverso che non sostanza. Ma introducendo La terza in questo modo si propone un’altra differenziazione, diversa che non tra voce e significante. L’onomatopea favorisce un’altra differenziazione che Lacan confronta col ron-ron del gatto, che non si sa da dove esca, sembra che esca da tutto il suo corpo. Ora, è interessato a separare la voce dal godimento. L’onomatopea è l’imitazione linguistica o la rappresentazione di un suono naturale non discorsivo, per esempio bum!, clap!, bing!...
C’è un collegamento tra l’onomatopea e lalingua. Qualche mese fa un analizzante mi chiede di vedere suo figlio, che ha due anni e mezzo, perché ha completamente smesso di parlare durante un’assenza della madre per un viaggio. Aveva iniziato a parlare bene da poco. Nel primo colloquio con tutta la famiglia, il bambino si occupa di mettere in ordine i giocattoli, ponendoli a coppie, separando gli animali dalle persone. Mentre parlo con i genitori, e cerco di mettere ordine alla confusione che presentano, impedisco alla madre di raccontare con rigoglio di dettagli il momento sfortunato della nascita del bambino. Il bambino mi guarda e mi ascolta attentamente, alla fine gli chiedo se vuole tornare la settimana successiva e dice esplicitamente sì. Li vedevo a volte tutti insieme, a volte madre e bambino, a volte il padre e il bambino. Durante quel periodo il bambino metteva in ordine e nominava. Dopo le ferie la madre decide di non tornare, non importa per quali ragioni, quindi continuo a lavorare col padre e con il bambino. Il gioco del nominare consisteva nel fatto che prendeva un oggetto dalla scatola, io gli chiedevo con un gesto che cosa fosse e lui, contento, diceva il nome. Il padre lo correggeva e lui si correggeva a sua volta. Un giorno venne fuori un rumore incomprensibile che io ho ripetuto, allora si aggiunse il gioco del ron-ron, metà lalingua metà onomatopea, con grandi cambi di tono. Lo scambio di suoni non comprensibili era molto piacevole per il bambino. Così ho introdotto il padre nel gioco perché il bambino pretendeva di giocare solo con me, e questo non era importante. Il bambino approfittava per mettere il padre e me in difficoltà, non riuscendo a ripetere i suoni che lui faceva. In poco tempo il suo vocabolario è diventato ricco e preciso, tuttavia terminavamo le sedute con un sovrappiù di questo scambio culminante con un’onomatopea riconoscibile e riconosciuta.
Lacan opera una trasformazione dell’aforisma di Cartesio “Penso dunque sono”. Ne La terza dà una nuova versione del cogito cartesiano, versione che corregge quella su cui ha lavorato nella logica del fantasma. Lacan collega il “penso dunque esisto” di Cartesio con l’inconscio e l’Es freudiano attraverso una negazione: “io non penso” è l’inconscio, “io non sono” è l’Es. Prima di pronunciare La terza è arrivato a questo punto. Il fantasma è un complemento d’essere, un’operazione pulsionale che aggiunge un complemento all’inconscio. Là dove non penso, lì c’è l’Es.
Nel seminario sull’etica, Lacan dice che è impensabile che siano potuti apparire prima del XVII secolo la psicoanalisi come pratica e l’inconscio di Freud come scoperta. Formulata come una divisione fra il sapere e la verità, l’esperienza del cogito cartesiano diede luogo all’istituzione del soggetto in senso moderno, come soggetto della scienza. Per questo motivo, per Lacan, non riconoscere la paternità culturale che c’è tra Freud e una certa svolta del pensiero in quel punto di frattura significa misconoscere il tipo di problema al quale punta la ricerca freudiana. Il rovesciamento del pensiero, “penso dunque esisto”, è stato anticipato dall’invenzione del quadro, grazie all’alleanza di arte e matematica che ha avuto luogo nel Quattrocento con l’invenzione di ciò che chiamiamo la prospettiva geometrica. Da questo momento, il mondo che prima era un libro da decifrare diventa un mondo che deve essere scoperto, esplorato con i propri occhi e indipendentemente dallo sguardo divino e dalla verità rivelata. L’uomo si trasformò in un’entità psicologica autonoma. Secondo Gérard Wajcman una rivoluzione dello sguardo, il quale dimostra, in un libro che si intitola Fenêtre (Finestra), l’equivalenza della logica del quadro, della finestra e del fantasma. Il fantasma è quel che organizza il nostro rapporto col mondo. La rivoluzione dello sguardo che si produce nel Quattrocento scatenò trasformazioni a cascata nella soggettività perché si inaugura un nuovo modo di godere, godimento che si aggiunge alla vista. Nel Quattrocento si inventa il quadro, e nell’architettura nasce la finestra. Ciò è stato sviluppato da Lacan nei primi capitoli del Seminario XI. Il soggetto moderno sorge come soggetto spettatore e il mondo come mondo della rappresentazione. C’è una nuova struttura della soggettività che separa l’ambito interno da quello esterno, il visibile da ciò che è nascosto, il mondo privato dalla scena pubblica. Si delinea la sfera del pubblico, il posto dove nascondersi una volta che sono chiuse le finestre, quindi il luogo della seduta analitica. Ecco perché Lacan mette in relazione questa rivoluzione del pensiero come antecedente alla scoperta freudiana. Il filosofo che attraversa questo straordinario mutamento dello sguardo è stato Cartesio. Cartesio era assillato da un metodo per scoprire la verità perché pensava che la vista lo ingannasse, che la percezione fosse ingannevole. A ventitré anni lascia i libri e il suo paese e decide di viaggiare. Va in giro per il mondo, letteralmente, a vedere corti ed eserciti, a raccogliere esperienze con la volontà di mettere se stesso alla prova perché convinto che troverà molta più verità nel ragionamento che ciascuno fa sulle cose che gli interessano. Ha scritto nella sua madrelingua, il francese, che il Discorso sul metodo non aveva altro fine che comunicare la sua trovata, che «è stato il risultato di un immenso desiderio di distinguere il vero dal falso, per vedere chiaramente le mie azioni e andare con sicurezza nella vita». Sottolineo il termine “andare”, collegato al termine presente ne La terza “dromo”, perché Lacan dice che il pensiero sta nei piedi. C’è un collegamento fra pensiero e andare, che Lacan sottolinea per non perdersi. Il 16 novembre 1619 Cartesio è in Germania. Si produce un incontro col reale in forma di angoscia: durante la notte scoprì i fondamenti di una scienza ammirevole, a partire da tre sogni consecutivi che interpretò come messaggio divino. Che il padre del razionalismo abbia trovato nei sogni gli elementi fondamentali della sua dottrina costituisce una sicura prova che Dio è un nome dell’inconscio.
A Freud è stato chiesto, da Maxime Leroy, di interpretare i sogni di Cartesio. Nella sua risposta, Freud, confessa l’ansia che gli provocò questa domanda perché si riesce a ricavare poco dall’interpretazione dei sogni prescindendo dalla parola del soggetto sognante. Il filosofo seppe tradurli immediatamente, interpretando da sé. Nel primo dei tre sogni, lui è immerso nella notte, febbricitante, in preda al panico, fantasmi che si levano di fronte al sognatore, cerca di alzarsi per allontanare i fantasmi ma torna a cadere, vergognandosi di se stesso, sente una debolezza che lo colpisce al lato destro. Improvvisamente si apre una finestra della sua stanza, si sente trasportato da una raffica di vento impetuoso che lo fa girare sul piede sinistro, si trascina vacillando. Non dimentichiamo che lui voleva andare con sicurezza nella vita, adesso, nel sogno, lo vediamo traballare per il vento impetuoso. Tenta, con grande sforzo, di entrare nella cappella per fare le devozioni e in quel momento passano alcune persone, vuole fermarle e parlargli, nota che una di loro porta un melone, ma un vento fortissimo lo spinge nuovamente fuori dalla cappella. Apre gli occhi e sente un forte dolore sul lato sinistro, non sa se è sveglio o se dorme: è la sua preoccupazione fondamentale, se è vero oppure no quel che vede. È una preoccupazione che abbiamo tutti. Sveglio solo a metà, si dice che il genio malevolo ha tentato di sedurlo e mormora degli scongiuri per esorcizzarlo. Il genio malevolo è un personaggio che Cartesio suppone come qualcuno che inganna rispetto a ciò che percepisce. Cartesio cerca la garanzia della verità. Cartesio arriva alla garanzia divina: le cose sono vere perché è Dio che vuole così. Torna a dormire. Un tuono lo sveglia, vede dei lampi e ancora si domanda se è un sogno o una fantasia, se dorme o è desto, aprendo e chiudendo gli occhi per arrivare a una certezza. Poi, tranquillizzatosi grazie ai suoi ragionamenti, si è potuto accorgere che i lampi e le scintille non erano reali ma prodotti nell’oscurità dalla sua vista. Arriva un terzo sogno, non così angosciante come i precedenti. Cartesio apre un dizionario, poi un’antologia di poesie. Il camminatore intrepido sogna il seguente verso: qual è il cammino da seguire nella vita? Improvvisamente arriva un uomo che non conosce e vuole fargli leggere un pezzo di Ausonio che comincia con queste parole: si e no. L’uomo sparisce e ne arriva un altro. Anche il libro sparisce. Dopo torna abbellito con ritratti incisi sul rame, e la notte trascorre tranquilla. Il dizionario, come interpreta lui stesso, rappresentava l’insieme delle scienze, la collezione di poesia, filosofia, sapienza che si trova nello spirito di tutti. Già sveglio continua a meditare sul sogno. Il titolo completo della poesia di Ausonio è: il Sì e il No di Pitagora, allora Cartesio comprende che alludeva alla verità e falsità delle scienze umane e della conoscenza umana. Il clima di quest’ultimo sogno era gradevole, e lo prese come un’indicazione di quale dovesse essere il suo cammino e verso dove rivolgere tutti suoi sforzi durante la sua vita futura, cioè contribuire alla distinzione tra verità e falsità. Cartesio si applica a risolvere il dubbio rappresentato nel sogno dalla tensione tra la parte destra e quella sinistra, ma lascia da parte il dettaglio del melone, che viene da un paese straniero e che non è sfuggito alla perspicacia di Freud. Freud dice: «Il sognatore ha avuto l’idea (originale) di vedere raffigurato in esso le attrattive della solitudine, presentate però con allettamenti esclusivamente umani» [Opere, Vol. X, p. 549]. Freud deduce che l’elemento che ostacolava il movimento, ciò che impedisce di seguire il cammino retto nella vita, l’emiplegia del primo sogno, costituisce una raffigurazione del conflitto interiore del sognatore la cui massima espressione, per il grande artefice del dubbio metodico, è indicata come l’alternativa tra il si e no della poesia di Ausonio. Questo non vuol dire che possiamo diagnosticare Cartesio ossessivo, ma è un’indicazione della sua posizione soggettiva a partire dalla quale fa qualcosa con questo. Tutta la filosofia moderna si fonda su tale operazione… le cose nascono così, col tormento soggettivo.
Lacan ammira il tormento di Cartesio, è lo stesso che appariva a lui, e confessa ne La terza, per esempio, «non trovo affatto che il linguaggio sia la panacea». Non lo è in nessun modo, il linguaggio si avvolge, si svia, si distorce, e lui patisce questa stessa tortura. Ma è così quando si vuole andare avanti, se uno vuole rimanere nel comfort sceglie vie già battute. Come dice Miller, Lacan non seguiva le vie già battute.
Freud stesso è un esempio di questo tormento, tormento che appare quando scopre qualcosa di nuovo. Freud scrive, in una lettera a Fliess del 12 giugno 1900, che gli piacerebbe che venisse posata una targa che dicesse che il 24 luglio 1895 a lui si rivelò il segreto del sogno. In una successiva lettera dice: «possiamo vedere che quando sorge qualcosa di nuovo come in Cartesio, il vissuto soggettivo non è quello di oh, che meraviglia! della rivelazione», aggiungendo che si sente «assolutamente esaurito col lavoro, ma tuttavia qualcosa germoglia, sorge, minaccia, attrae, tutto si muove e sbuca, è un inferno intellettuale dove uno strato sorge e un altro lo copre di nuovo». Vedete il movimento del quale parla Lacan? L’avvolgersi continuo del linguaggio, nel nucleo più scuro si riesce a scorgere il contorno di un amore luciferino, ecco perché ha scelto come epigrafe dell’Interpretazione dei sogni “Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo”. Qui vediamo sorgere la trinità infernale, non divina, La terza di cui ci parla Lacan, perché, in fine, l’enunciato trasformato Je pense donc je souis si riferisce a questo tormento. Lacan dice che questo enunciato è un enunciato del mio soggetto, il je del soggetto della psicoanalisi. Lo spiega nel testo: è correlativo a uno svuotamento del pensiero, come un buco, una faglia, una mancanza d’essere. Una delle prime cose che fa Cartesio è dubitare di tutto, “non posso essere sicuro di niente”: questo è lo svuotamento del pensiero, cogliere questo buco è ciò che rende possibile che Cartesio raccolga un reale del buco, che lo nomini: “finalmente posso dubitare di tutto ma non del fatto che penso”.
Penso ma sono? Risponde alla domanda con l’analisi dei sogni. Cartesio ha sotto mano l’inconscio come problema del godimento e del pensiero, ma sceglie il discorso del padrone, «la musica dell’essere» come dice Lacan ne La terza. Cartesio pensa e ricostruisce il proprio pensiero con il discorso del padrone. Lacan constata che si può afferrare il “penso dunque sono”, ma subito dopo ci scappa via quando cogliamo qualcosa del pensiero. Quale sarebbe la permanenza del nostro pensiero? Lacan dice che Cartesio, come tutti, è perso in questo assunto. Perché per parlare una lalingua ci vuole un inconscio, ed è perduto per tutti. Perché il sapere è un sapere impossibile da raggiungere per il soggetto: ciascuno di noi di fronte al sapere inconscio è rappresentato da un significante. Non possiamo prenderlo, come un pensiero dell’essere con consistenza assoluta, perché il buco del linguaggio lo trasforma e lo porta via. Quindi è interessante il successivo punto, in cui Lacan parla di tornare al senso del je souis, che è l’operazione di minare il senso della massima cartesiana. Perché prende l’essere a partire dal verbo essere, per esempio il verbo “fui” non funziona col verbo “essere”. E Lacan si chiede: cosa è successo? La linguisteria si regola con questo come può.
Lacan ironizza sul mito creato per spiegare le lingue indoeuropee, una costruzione universitaria sull’origine della lingua al servizio della finzione di un popolo dominante. Lacan prende il verbo “essere” per quello che è, una copula, “io sono qualcosa”. Si fa la “copula” con il predicato, si “congiunge” col predicato. Ancora, prende l’equivoco del linguaggio (lalingua) per dare aria alla musica dell’essere, alla copula dell’essere. Lacan è critico con se stesso perché all’inizio aveva detto che l’essere si poteva acquisire nella parola a partire da un patto simbolico, per esempio chi dice “sei la mia donna” è (messaggio in forma rovesciata): “sono il tuo uomo”.
Ne La terza Lacan fa un gioco attorno all’amore, allo slittamento del verbo essere e sull'uccidere, un gioco tra il verbo “amare” e il verbo “sostieni”, che in francese suonano uguali. La domanda sarebbe: mi ami o mi sostieni? Dall’introduzione del gioco di equivoci del verbo “essere” la copula si rompe. Copula illusoria: l'idea che facciamo coppia con l’Altro. Lacan continua: «è inaudito che abbia preso senso il nodo RSI, così come ha preso senso il “penso dunque sono”. Ma è il vento che soffia, che io non posso prevedere e che gonfia le vele della nostra epoca».
«Come togliervi dalla testa l’uso filosofico dei miei termini? Vale a dire, il suo uso grossolano quando entrano così nella testa. Voi vi immaginate che il pensiero stia nel cervello». L’ultima versione del corpo lacaniano si situa nel nodo borromeo, incorpora il supporto che è il corpo vivente, il corpo simbolico che è il corpo del significante e il corpo vincolato al godimento della lingua.
Cosa si produce nel nostro corpo quando ascoltiamo la lingua?
E cosa facciamo con quello che ascoltiamo?
Alcune parole introducono nel corpo delle rappresentazioni imbecilli, ed ecco: siamo nell’immaginario. Lacan aggiunge, con un gioco di parole, che l’immaginario vomita senso. L’immaginario ci vomita senso, ancora e ancora. Dietro ciò c’è l’idealismo, che tutto sia prodotto dalle nostre idee. Questo è l’immaginario. La gente non chiede altro... Il pensiero è la cosa più cretinizzante che c’è... col dai e dai ancora senso!
Proposito ne La terza è disattivare l’idea della potenza del pensiero: «Voi pensate che il pensiero è nel cervello, per quanto mi riguarda è nelle pieghe della fronte». Lacan dice, è come quando si trova un riccio: lo si prende, si mette in tasca e si porta nella casa di campagna. Il riccio si chiude, si appallottola, come facciamo noi. Abbiamo delle rappresentazioni imbecilli su noi stessi, sui nostri pensieri, e ci chiudiamo su di noi pensando che siamo uno, pensiamo che siamo uno col nostro mondo che vediamo, cioè il mondo della rappresentazione.
Lacan dice: «per un istante vorrei che il vento», l’uso corretto dei termini lacaniani, «vi entrasse non nella testa ma dai piedi, per prendere la via giusta». Lacan usa il termine frayage, il bahnung di Freud, per tradurre “facilitazioni”, aprirsi delle vie facilitate. Qual è la via giusta? Ne La terza parla agli analisti, dice che il punto sarebbe che lasciaste qualcosa di diverso da un membro del corpo, che lasciaste l’oggetto insensato, l’oggetto a, per offrirlo come causa del desiderio al vostro analizzante. L’analista mette il suo corpo nell’analisi, l’importante è come mette il suo corpo nell’azione analitica, dove arriva con il suo corpo per condurre l’analizzante. Si suppone che l’analista sappia qual è la via giusta, quella dell’inconscio… ma non è semplice. Lacan dice che il punto è che bisogna lasciare qualcosa di diverso rispetto al corpo, ecco perché non abbracciamo l’analizzante, può succedere ma è raro. Si tratta di poter cogliere esattamente ciò che può rispondere alla vostra funzione.
L’oggetto a è un oggetto insensato, fuori dal pensiero, ecco perché non basta avere un’idea per fare una parvenza dell’oggetto a. L’oggetto a è un oggetto fuori dal corpo ma vincolato al corpo. Tutti gli oggetti (orale, anale, scopico e vocale) sono fuori dal corpo ma legati alla logica del corpo. Lacan ci dice che l’analista deve essere la parvenza dell’oggetto a del suo analizzante, qualcosa che è legato al corpo ma non al corpo vivente in quanto tale, non al corpo immaginario che dice “penso dunque sono”.
Lacan dice: «io non ho avuto l’idea dell’oggetto a, io l’ho scritto», questa differenza è molto importante. L’oggetto a non è uscito dal mondo delle idee. Lacan spiega, nel Seminario XXIII, che l’importante dell’oggetto a è l’ob, l’ostacolo, il nome dell’ostacolo ad ogni pensiero. Quando inciampiamo nelle nostre difficoltà di pensiero, cosa che succede tutti i giorni, c’è di mezzo l’oggetto a. È il nome della nostra inibizione, dei nostri ostacoli. È un oggetto eterogeneo al simbolico e agli altri oggetti pensati, ecco perché è reale, è di un altro registro. Per questo il reale della psicoanalisi non è un reale descrittivo. Concepirlo come una scrittura, una scrittura logica, lo fa diventare operativo nel reale. Dobbiamo pensarlo nella logica e non nelle idee. L’oggetto a, come si vede nel disegno dei nodi, è al centro dei tre registi, RSI, e i tre registri sono i termini effettivamente operativi quando ci collochiamo nel discorso analitico, quando si è analisti. Sono termini che emergono per e tramite questo discorso. Questi termini sono molto attraenti, tutti parlano in lacaniano oggi, è il vento di quest’epoca... in filosofia, in sociologia, ecc., si fanno lezioni su Lacan... Ciò che dice Lacan è che questi termini sono del discorso analitico. Nel discorso analitico i tre registri servono per prendere l’oggetto a che è al centro e offrirlo come causa del desiderio al suo analizzante. Questo vuol dire che ogni atto dell’analista (come risponde al telefono, accoglie l’analizzante, come interpreta, taglia la seduta) mira a introdurre questo.
Lacan dice: «non pensate che io avessi intenzione di elaborare tutto questo, ho solo seguito il cammino». Seguire la serie implica che si faccia un po’ credulone. Si tratta di una nuova forma di credenza. Sarebbe meglio dire che Lacan si fa fregare nel modo giusto, credulone, gonzo, perciò Lacan non si dà arie di essere “autore” di un sistema di pensiero ma parla di se stesso come di qualcuno che serve al discorso analitico. Per questo Freud parlava della psicoanalisi come del suo tiranno. La formulazione lacaniana “penso dunque si gode” ci conduce a questo punto della struttura. Non possiamo dire “penso dunque godo” e crederci padroni del godimento. Invece “penso dunque si gode” vuol dire che se c’è pensiero, c’è godimento. Credersi padroni di questo non vuol dire nulla. L’importante è poterci far qualcosa, con l’Es. Il discorso del padrone è una cosa diversa. Il discorso del padrone ha uno scopo: che le cose vadano al passo con quelle di tutto il mondo. Il discorso del padrone è che tutti vadano con lo stesso passo, che circolino, come dice nel Seminario XXIII. Lacan ha presente che si tratta di segnalare la via, il cammino.
Il sintomo, il reale, si presenta come ciò che ostacola la circolazione di tutti, Lacan dice nel Seminario XI che «il reale è quello che zoppica»; come succedeva a Cartesio nel sogno quando non riusciva ad andare dritto. Nel Seminario XI Lacan definisce il reale come quello che non va, e ne La terza è ciò che si mette di traverso davanti al carro. Ciò che non cessa di ripetersi, disturbando il cammino.
Ci sono diverse definizioni del reale ne La terza, come: ciò che torna sempre allo stesso posto. Attenzione, questo ci farebbe pensare al reale come qualcosa di conoscibile, ma se non è simbolico né immaginario non è conoscibile. Dice che torna allo stesso posto perché rivela qualcosa che sta fuori delle leggi della percezione. Tutti lo abbiamo sperimentato in un momento di angoscia, l’ordine della rappresentazione del mondo e del nostro corpo si trasformano. Dov’è l’angoscia, il corpo, il reale? Non lo sappiamo. L’unica cosa che vogliamo è uscire da lì, e arrivare a un posto sicuro. Lacan dirà che l’angoscia è ciò che non inganna. Cartesio si preoccupava del fatto che i sensi ci ingannano. L’angoscia è ciò che non inganna, per questo l’analisi parte dall’angoscia, è il cammino verso il reale, perché è a partire dall’angoscia presa dal punto di vista produttivo che si produrrà l’oggetto a. L’oggetto a sorge nel campo della visione, come qualcosa che perturba la rappresentazione del corpo, per questo è fuori corpo ma è legato al corpo perché l’angoscia si sente.
Il sintomo come ciò che viene dal reale è una nuova definizione del sintomo, che modifica la concezione precedente in Lacan che il reale sia preso nelle leggi del linguaggio, dell’inconscio. Introducendo il concetto de lalingua come al di là del linguaggio, Lacan presenta una nuova versione del sintomo, come reale senza legge, al di fuori delle leggi del linguaggio.
L’idea di Lacan è che l’analista del XXI secolo debba essere preparato per far fronte a questo reale. Prima l’analista conduceva l’analizzante verso il reale, dall’inconscio alla pulsione, nella costruzione del fantasma. Ora è il reale che viene e l’analista deve farvi fronte. Ciò implica un cambiamento nella concezione dell’interpretazione. L’interpretazione non è presentata ne La terza come qualcosa che dà senso al sintomo ma, come dice letteralmente, «l’interpretazione opera con lalingua», cioè con quello della lalingua che rompe il senso: l’onomatopea, il ron-ron, il gioco degli equivoci… È curioso vedere come Lacan introduca tale interpretazione sui propri concetti, lo abbiamo visto con il concetto di “discorso” e di “essere”. Dà ancora un esempio: il veut francese, che è anche la terza persona dell’indicativo, dove “lui vuole” e “volere” suonano uguali. È un modo di evocare l’idea che il desiderio è il desiderio dell’Altro nella sua lingua madre, nel gioco della lingua. Un altro esempio è nom, che in francese suona come “nome” ed è in assonanza con il “no” della negazione, ciò con riferimento all’operazione del Nome del Padre. Il terzo equivoco è tra “due” e “di loro”, da una relazione duale non si può costituire la relazione, la relazione tra significante e significato non è arbitraria come asseriva De Saussure, è il prodotto del deposito, dell’alluvione, della pietrificazione, che segna in un gruppo linguistico la sua esperienza dell’inconscio.
La lalingua civilizza il godimento. Per esempio, l’oggetto a non ha rappresentazione, sta fuori dal simbolico: la lalingua lo fa a pezzettini nominandolo, lo sminuzza in oggetti identificabili solo per la psicoanalisi, poiché non c’è altro discorso che permetta di cogliere come la lalingua opera sugli oggetti di godimento. In questo senso, il linguaggio civilizza il godimento, e l’operazione analitica va esattamente nella medesima direzione: fare del disco di ciascuno, del proprio godimento autistico, qualcosa che si renda un po’ più socializzabile.  Ecco perché la psicoanalisi è un discorso, e non una teoria del godimento, un modo di parlare delle nostre cose rendendole condivisibili, e non un cantare ogni volta il ritornello che le cose non vanno.
Lacan dice che l’analista non soltanto offre la possibilità all’analizzante di lamentarsi, di mettere in gioco quello che non va, ma anche di mettere alla prova l’impossibilità logica di dirlo, cioè d’inciampare nell’ostacolo che è l’oggetto a, per questo si trasforma in un assunto logico, della logica della struttura e non del pensiero. È interessante come Lacan trasforma il tornaconto secondario del sintomo freudiano in pensiero. Si crede che torniamo all’analisi per continuare a pensare, l’importante è che l’analista sappia che non è per questo motivo e che trovi la via perché, a sua volta, l’analizzante lo sappia, che estragga un sapere del parlare, parlare per poterlo usarlo. Dice Miller: «l’inconscio è il sapere più prezioso che noi abbiamo e non riusciamo a usarlo». L’analisi aiuta a usarlo.
Come fa l’analista per intervenire nel sintomo con la sua interpretazione affinché l’analizzante si orienti rispetto alla sua ricerca?  Lacan dice che l’interpretazione è un ready made per trattare il sintomo. Il ready made è un concetto di Marcel Duchamp, assolutamente geniale. Per cogliere un oggetto ready made, secondo Marcel Duchamp, è necessario che l’impressione estetica sia nulla, non dobbiamo provare nessun tipo di diletto, non deve intervenire assolutamente il gusto, dev’essere un oggetto che non ci interessa, e siccome si corre il pericolo che qualsiasi cosa finisca per riapparire bella conviene limitarne il numero. Deve essere un oggetto che non abbia nessuna possibilità di diventare bello, gradevole o brutto. Alla fine, deve essere qualcosa che non chiede di essere guardato, di cui si conosce l’esistenza ma che si guarda girando la testa. Lacan identifica l’interpretazione analitica con questo, poter estrarre dal discorso dell’analizzante l’elemento della lalingua che si rivela nella struttura del sintomo. A tal fine dobbiamo impedire di alimentare il sintomo con il senso. Il sintomo è un pesciolino vorace, vuole continuamente mangiare senso. L’opportunità che la psicoanalisi faccia qualcosa di diverso con il sintomo, con il reale del sintomo che proviene dalla lalingua dell’analizzante, dipende dal fatto di poter separare il godimento fallico del sintomo, di non trasformare il sintomo in godimento fallico.
Una paziente, una giovane pianista brava a scuola di musica, viene in analisi per diversi sintomi. Uno di questi è che si angoscia molto nel momento in cui deve fare un recital perché le si gonfiano le dita, sudano e le impediscono di suonare bene il piano. Nel corso dell’analisi emerse il ricordo che, quando era piccola, gli unici momenti in cui lei smetteva di suonare il piano erano quando si masturbava compulsivamente. Un analista non lacaniano avrebbe colto quest’idea come il senso del sintomo. Invece, Lacan insegna che quel senso è ciò con cui non dobbiamo alimentare il sintomo.
Per questa paziente è stato fondamentale quando ha detto: “Ho l’orecchio assoluto”. Si potrebbe pensare che lei avesse la capacità di ascoltare lalingua. Col taglio della seduta mormorando “assoluto” lei si è potuta render conto che non ascolta nulla, che non ascolta gli altri, che passa la giornata parlando e parlando perché gli altri la ascoltino, questo è il suo disco. L’immaginario del suo narcisismo impedisce la realizzazione della sua esecuzione musicale. Lacan lo dice così: «il corpo si introduce nell’economia del godimento attraverso l’immagine del corpo».  È attraverso l’“assoluto” del suo narcisismo che si è potuto arrivare a qualcos’altro. Alla fine, il godimento del suono si è liberato perché lei potesse suonare le sue esecuzioni musicali.
Nel “penso dunque sono”, dice Lacan, c’è un errore profondo perché ciò che inquieta il pensiero è immaginarsi che ci sia estensione. Quello che ci inquieta e angoscia è che ci impegnano a pensare l’estensione, vale a dire che il pensiero puro (come vorrebbero gli psicologi) è un errore, sarebbe come considerare che il pensiero non sia sottoposto alle contorsioni del linguaggio. E Lacan ne La terza confessa: «striscio per terra e sono venuto a incastrarmi su questo», parla di ciò che gli è successo nel proprio cammino in quel momento, di ciò che torna a incagliarsi nel “penso dunque sono”.
Lacan si chiede il perché delle dimensioni, delle rappresentazioni del mondo immaginario, delle geometrie. L’immaginario del corpo ci fa pensare che siamo sfere e che anche il mondo sia così, tondo, che si chiude, che lo possiamo cogliere versus unum, universo che mi avvolge. Lacan si chiede perché la geometria abbia avuto tanto peso nell’immaginario del soggetto. Perché la geometria, inventata con le piramidi, si è interessata solo alle forme perfette anziché ai nodi, alle corde, che tuttavia si conoscevano? Lacan dice: «in natura non ci sono nodi». Nell’anatomia non ci sono nodi. Il nodo incorpora il reale perché il reale è prodotto dal linguaggio, non dalla natura. Per questo non è possibile cogliere il reale attraverso la rappresentazione della natura. Si spiega che la preferenza della geometria sulla topologia è dovuta al fatto che la mente respinge la discontinuità; vogliamo la continuità tra noi e il corpo, gli altri, il pensiero e l’essere. Lacan si domanda se non vi sia un rifiuto strutturale, come una rimozione originaria, che fa sì che l’essere umano respinga il nodo. Nel fare un nodo ci sono un sacco di equivoci, basta fare la prova. Nel suo seminario Lacan dice che è stato anni a costruire il nodo borromeo. La terza indica qual è il cammino per maneggiare nel modo appropriato il nodo borromeo. Non è garantito. Bisogna farlo tutti i giorni.


Trascrizione e traduzione: Florencia Medici

Redazione: Giuseppe Perfetto