lunedì 14 dicembre 2015

Seminario del 19 settembre 2015 --------------------- Docente invitato: Antonio Di Ciaccia

LA TERZA

Ho iniziato ad ascoltare Lacan dal ‘72, con il famoso seminario XX. Ho ancora i miei appunti, e risultano perfetti. Lacan parlava molto lentamente e si poteva prender nota.
Due anni dopo, nel ‘74, ci fu un convegno di semiologia a Milano, organizzato da Umberto Eco. Lacan fece in modo che, non so per quali giri, anche Alfredo Zenoni venisse dal Belgio, e in quell’occasione fondò La Cause Freudienne a mezzogiorno e la chiuse la sera a mezzanotte. Fu veramente un’apertura/chiusura con il famoso tripode.
Qualche mese dopo ci fu il VII Convegno dell’École Freudienne de Paris a Roma, a Santa Cecilia. Lacan aveva scritto sessantasei pagine, non le lesse tutte, anzi non lesse il testo, praticamente improvvisò e questa fu poi la registrazione de La terza. Su internet ve ne sono diverse versioni, la più precisa è quella dell’École Freudienne de Paris, e la traduzione in italiano di Roberto Cavatola pubblicata in La Psicoanalisi [n. 12] è stata fatta a partire da questa. Nel 1974 era evidentemente il Lacan ancora pieno di vita.
Leggerò qualche parte de La terza in modo da darne un quadro.
Vorrei indicare una cosa che è da tener presente in Lacan. Dice che non ama i testi così... strambi, piuttosto ama i gialli. Nel seminario VI Lacan dice che c’è un moyen in ogni giallo, un mezzo che guida tutto il filo. Lacan scrive in quel modo là, fa lezione in quel modo là, parla in quel modo là, cioè ha più strati. Quello che veramente gli interessa non lo dice, ve lo lascia ricercare, non si trova. Notate bene che non si trova anche quando lui ha rivelato i giochi. Un enigma rimane un enigma anche quando è stato rivelato, è la sua frase famosa. Quindi, di ogni testo è da chiedersi qual è il punto, qual è il moyen, ciò che dirige tutta quanta la faccenda, e che volutamente non è visibile. Un esempio, che si trova nel seminario VI, è nell’Amleto di Shakespeare dove tutto si gioca attorno al fallo, di cui non se ne parla se non a un certo momento verso la fine. Tutta l’operazione è guidata dalla questione del fallo che però non viene fuori in primo piano.
Miller dice che Lacan non fa mai un compendio. È vero, però Lacan quando scrive, non quando fa lezione, fa un check-up della sua posizione rispetto a dove è arrivato in quel momento. Ad esempio in Allocuzione sulle psicosi infantili, del ‘68, Lacan in realtà fa il check-up della sua lettura dell’inconscio freudiano, dove ad un certo momento inserisce la questione del bambino autistico. Stessa cosa la sta facendo con La terza, e praticamente dice nel ‘74 a che punto è. Il più straordinario di questo percorso lo trovo nel brevissimo testo su Joyce, che è assolutamente apparentemente illeggibile, però se si segue questa linea di lettura si trova che è perfettamente in linea, e va dall’inizio alla fine calmo calmo.
La chiama La terza perché è la terza volta che parla a Roma… è un po’ il suo modo di fare rispetto ai testi: chiama Scritti gli scritti perché Seuil gli aveva mandato il blocco dei suoi scritti e non sapendo che mettere ha scritto “Scritti di Jacques Lacan” e lui disse “questo è il titolo”, oppure stessa cosa per Télévision.
La seconda volta che parla in Italia è nel ‘67, a Roma, Napoli e Milano: tre testi estremamente importanti presenti negli Altri scritti.
Il primo è il Discorso di Roma, quello che ha dato inizio al suo insegnamento. Sul “Discorso” di Roma fa un gioco di parole. Facendo riferimento a Gérard de Nerval dice: ça dit ce que. Il ça è l’es freudiano, ci si è rotti la testa per cercare di tradurlo, comunque è, scusate se dico “inconscio” perché non è inconscio: “l’inconscio dice ciò che”, dit ce que diventa disque in francese quindi è come “l’inconscio dice che”, disque. “Discorso di Roma”, disque-ours de Rome: lì c’è questo gioco, lo ricordo, non ero tanto lontano da dove parlava: disque-ourdrome. Leggetelo dit-ce-que, che ha a che fare con quello che insiste dalla parte dell’inconscio, e poi ourdrome, che è rimasto enigmatico. Riprende più avanti per due volte l’ur. Ur vuol dire il discorso fondativo, ur de rome, come Ur-Hamlet, quelli che precedono Amleto. Fa riferimento all’Urverdrängung di Freud, che è il punto cieco dell’inconscio freudiano. C’è questo gioco che lancia all’improvviso, bisogna dire che ha gelato tutti quanti perché nessuno aveva capito esattamente, invece è molto preciso, logico, perché lega le disque, quello che l’inconscio dice, – ourdrome, il primo discorso di Roma, il discorso fondativo della psicoanalisi secondo lui, lo lega con il finale, che è semplicemente “come io rendo oggi il discorso di Roma”, ovvero il nodo borromeo.
A pagina 22 Lacan dice: «Questa terza la leggo, mentre potete forse ricordare che nella prima, che vi fa ritorno, avevo creduto di doverci mettere la mia parlanza (parlance), poi la si è stampata, col pretesto che vi era stato distribuito il testo. Se oggi faccio solo ourdrome, spero non vi sia di ostacolo a intendere ciò che leggo. Se è di troppo, me ne scuso». E poi ritorna alla prima, cioè cosa ha detto nel Discorso di Roma nel ‘53. Il Discorso di Roma lui lo lega, dall’inizio alla fine, intorno a RSI. Dirà che prima ancora del Discorso di Roma ha scritto un testo su Reale, Immaginario e Simbolico, che trovate pubblicato da Einaudi, in Dei Nomi-del-Padre, un testo semplice, comprensibile, che dà il punto in cui Lacan era a quel momento… ma non dà l’RSI della fine.
Nel nodo borromeo Lacan cercherà di mettere tutto lo sviluppo che ha dato alla psicoanalisi, e piazzerà i tre godimenti che circolano intorno a un punto, che è per lui il moyen, che chiamerà oggetto a. Qui esplode la differenza con l’Internazionale, perché in quel punto centrale l’Internazionale ci mette il fallo, Lacan no perché se ci fosse il fallo ci sarebbe rapporto sessuale, questo è il punto di fondo. L’essere umano invece rimane con una mancanza costitutiva, mancanza costitutiva incarnata nell’oggetto a, che non è tanto quello che viene a riempirlo, che fa finta di sostituire quello che manca, ma è semplicemente il vuoto, il “vacuolo” come lo chiama nel seminario XI.
Pagina 29. Qui c’è un errore di traduzione, comprensibile: ça se jouit. Il ça è tradotto “ciò si gode”, mentre è intraducibile. Io ho sempre messo che si salta questo soggetto, però bisogna indicare che si salta, perché è dell’ordine del “capita”, “avviene”, cioè chi è che gode non è dell’ordine di un soggetto. Già dirlo ça è di troppo, in italiano quasi rende meglio l’impossibilità di dirlo. «Dove si situa dunque questo “si gode” (ça se jouit) nei miei registri categorici dell’immaginario, del simbolico e del reale?».
A pagina 34, subito dopo lo schema della figura 6 del nodo borromeo: «Come vi ho già detto prima, è su questo posto del più di godere che si innesta ogni godimento», quindi prima cerca di situarlo, e poi lo pone al centro dell’intersezione tra i tre godimenti. I tre godimenti sono: la jouissance phallique, la jouissance de l’Autre e il senso.
Pagina 12: «Poiché non devo parlare troppo a lungo, vi do una dritta: questo ourdrome mi dà semplicemente l’occasione di mettere la voce sotto la rubrica dei quattro oggetti da me detti a, ossia di risvuotarla della sostanza che ci potrebbe essere nel rumore che fa e di metterla in conto all’operazione significante (...)». Qui fa un passaggio dell’oggetto a. All’oggetto a Lacan fa fare tre passaggi molto precisi. Parte dall’oggetto come tradizionalmente la psicoanalisi kleiniana considerava l’altro, così diciamo che il primo oggetto è la madre… fa sempre un po’ strano chiamare le persone “oggetto”. Winnicott darà una posizione precisa rispetto a quest’oggetto, il cui ordine si trova nel Discorso sulla psicosi infantile dove Lacan evoca l’oggetto transizionale situandolo all’interno della sua logica, dicendo a Winnicott che dal punto di vista clinico è là, ma non dal punto di vista logico, che invece è là. In questo passaggio l’oggetto a si sdoppia nella madre, che prende la posizione del grande Altro, e nell’altro, la posizione del doppio, il simile, dell’a piccolo. Poi lo sposta sul versante dell’oggetto al di là del significante, ma gli dà un posto nel significante, e questo si trova in un passaggio preciso de La direzione della cura, dove Lacan mette addirittura in corsivo (quando Lacan mette in corsivo vuol dire diverse cose, ma in quel caso vuol dire che vuole dargli risonanza) che questo oggetto è dell’ordine significante, per passare poi ad un’altra consistenza che qui chiamerà logica, che in realtà rinvia alla questione del godimento. Il passaggio sull’oggetto a si può riprendere a pagina 19: «Quando penso che mi sono divertito un po’ a fare un gioco tra questo S1, che avevo portato alla dignità del significante Uno, che ho giocato con questo Uno e con l’a, annodandoli con il numero aureo, è il massimo! Voglio dire che scriverlo gli dà la sua portata. Di fatto, era per illustrare la vanità di qualunque coito con il mondo, cioè di quello che sin qui abbiamo chiamato la conseguenza. E infatti al mondo non c’è nient’altro che un oggetto a, cacatura o sguardo, voce o tetta, che divide il soggetto e lo trucca in quello scarto che ex-siste al corpo». Da qui passa a centrare l’oggetto a nel nodo borromeo. Nel testo, c’è un movimento che fa passare l’oggetto a dalla realtà ad una situazione in cui questa realtà viene strutturata tra grande Altro e piccolo altro, che però dev’essere al livello del simbolico, altrimenti non è leggibile, ed è proprio in quel punto che può essere letto a livello della logica, quindi sul nodo borromeo. Lacan riprende l’oggetto a anche al livello dei quattro discorsi, a pagina 16: «Che siano cerchi del nodo borromeo non è comunque una buona ragione per inciamparvi». Utilizza un termine ambiguo: y prendre le pied in francese vuol dire anche “masturbarsi”, o “godere”, si può dire anche di una donna j’ai pris mon pied là, Cavasola [il traduttore] scrive “godersela”, “passarsela”, anche “inciampare”. «Non è questo che chiamo pensare con i piedi. Bisognerebbe che vi lasciaste qualcosa di ben diverso da un membro – parlo degli analisti –, si tratterebbe di lasciarvi quell’oggetto insensato che ho specificato con a. È proprio questo che si acchiappa all’incastro tra il simbolico, l’immaginario e il reale, come nodo. Acchiapparlo nel modo giusto», e c’è una deriva dalla logica alla clinica: «vi consente di rispondere alla vostra funzione: offrirlo come causa del suo desiderio al vostro analizzante. Ecco quel che si tratta di ottenere» in una psicoanalisi. Poi dice una frase piuttosto pesante per gli analisti: «Ma se doveste mettere un piede in fallo», si noti ancora il gioco sul piede, «non è poi così terribile, l’importante è che avvenga a vostre spese». Articola il rapporto fra l’oggetto a rispetto al nodo borromeo, poi lo situa rispetto alla pratica analitica. Sul nodo borromeo è come dovreste pensare che ci siano i tre godimenti e come articolarli, come fare in modo che da questi tre venga estratto quel punto, potremmo dire quel moyen del giallo, il giallo di ogni analisi. E Lacan diventa più operativo: lo deve mettere in forma nel discorso dell’analista, a pagina 16: «Non immaginatevi che ne abbia avuto, io, l’idea. Ho scritto oggetto a, è completamente diverso. Ciò lo accomuna alla logica, cioè lo rende operante nel reale a titolo d’oggetto di cui, per l’appunto, non vi è idea. Cosa che, bisogna dirlo, rappresentava un buco finora in ogni teoria (...)». Lacan prende questo buco e lo piazza al posto giusto. Prende l’oggetto a come buco e lo inserisce nei quattro discorsi, come ciò che permette agli altri discorsi di risituarsi, di interrogarsi su cosa sono. L’idea di Lacan è che è solo a partire dal discorso analitico che vi è un’interrogazione sul discorso del padrone, dell’universitario, dell’isterico.
«Cosa che, bisogna dirlo, rappresentava un buco finora in ogni teoria, qualunque essa fosse». Lacan dice che ogni teoria è una teologia, cioè che ogni teoria si basa sul riempimento di quel buco. È quel buco pieno ciò che dà struttura di religione a ogni teoria. «L’oggetto di cui non si ha idea. È questo che giustifica le mie riserve di poc’anzi rispetto al presocratismo di Platone», fa riferimento al Parmenide. «Non che egli non ne abbia avuto la sensazione. Il sembiante è ciò in cui è immerso senza saperlo».
La figura 2 a pagina 24 mostra i tre godimenti, con l’oggetto a che fa buco e permette i tre godimenti. L’oggetto a è da reperire in un’analisi. In un’analisi come si articola questo? Nei quattro discorsi, Lacan dà il posto a ogni elemento (S1, S2, a, $), glielo dà non solo come elemento ma per il posto che occupano. In basso a sinistra è il posto della verità, in alto a sinistra è il posto del sembiante. Nel discorso normale, che è dell’inconscio ma nello stesso tempo è il discorso della vita corrente, il buco viene in basso a destra. Ad esempio, incontrate un poliziotto il quale vi dice: “Documenti”. Il signor Mario Rossi si presenta e dà i documenti. Lui potrebbe dire per esempio: “Lei non sa chi sono io”, che è un voler dare un S2 barrando l’S1, cioè io ti barro completamente. Ad ogni modo, di solito si danno i due elementi per cui uno è riconosciuto. Però rimarreste perplessi se vi dicesse: “Com’è che ha scopato stanotte con sua moglie?”. Qualcosa di quell’ordine non è pensabile. Voi mi direte: era così in certe epoche. Le epoche che hanno permesso un’interrogazione sull’oggetto a di quel tipo. L’oggetto a l’hanno fatto spostare. Dove uno può fare una domanda di quel tipo Lacan lo chiamerà il “discorso universitario”. Per Lacan il discorso universitario non è il discorso dell’universitario. Il discorso universitario è il discorso della burocrazia staliniana. Nel discorso corrente, però, il problema è che l’oggetto a rimane un buco. L’imbroglio di Freud sarà di far uscire l’oggetto a. L’imbroglio è: “Adesso che lei è sul divano dica tutto quello che le viene in mente”. L’imbroglio è che farà venir fuori quello quando di per se stesso non verrebbe fuori. Dal resto, l’interpretazione dell’analista è per provocare che nel discorso che fa l’inconscio si situi quel che non è dicibile. Non è dicibile perché c’è della vergogna, ed anche per una altro senso.
A pagina 17 Lacan tocca l’argomento del sembiante: «Non vi è discorso in cui il sembiante non conduca il gioco. E tuttavia non è una buona ragione perché l’ultimo venuto, il discorso analitico, debba sfuggirvi e con il pretesto che questo discorso è l’ultimo venuto voi vi sentiate a disagio al punto di farne, secondo l’uso con cui si impettiscono i vostri colleghi dell’Internazionale, un sembiante più sembiante che al naturale, un sembiante ostentato. Ricordatevi comunque che il sembiante di ciò che parla come tale è sempre presente in qualunque tipo di discorso lo occupi. È persino una seconda natura. E allora siate più distesi, più naturali, quando ricevete qualcuno che viene a chiedervi un’analisi. Non sentitevi obbligati ad alzare la cresta, anche come pagliacci siete giustificati ad essere». Che meraviglioso Lacan… devo dire che lui come attore... chapeau. «Basta che guardiate la mia Televisione: sono un clown. Prendete esempio e non imitatemi. Il serio che mi anima è la serie che voi costituite». Continua: «Il simbolico, l’immaginario e il reale sono l’enunciato di ciò che opera effettivamente nella parola quando vi situate a partire dal discorso analitico, quando – analisti – lo siete. Ma tali termini emergono solo per e attraverso questo discorso». Il problema è come si fa a portare questa problematica al livello che lui dice, ovvero che il discorso analitico è dell’ordine del sembiante. Lacan fa una differenza: il discorso analitico richiede che l’analista occupi la posizione di semblant, ma la posizione di semblant non è faire semblant, non è far finta. Chiunque si metta in quella posizione, in alto a destra nei quattro discorsi, è sempre nella posizione di semblant. Anche il discorso analitico non sfugge a questa regola. Nella concezione teologica quel punto non può essere del semblant ma del vero, ed è quello che passa come la Verità, con la V maiuscola, non del vero o falso ma la verità come “Io sono La Verità” del Vangelo, o quella del Corano. L’analista se si mette in quella posizione credendo che non è quella di semblant, Lacan dice, «alza la cresta». Lacan ricorda che l’analista non può non sapere che quella posizione è dell’ordine del semblant. L’analista paranoico si mette in quella posizione e dice “sono semblant tutti quanti al di fuori di me”, e l’analista canaglia dice: “so benissimo che è dell’ordine del semblant però fregherò il mio analizzante facendogli credere che sono esattamente in quel posto”… non sempre la canaglia coincide col paranoico.
L’analista non può che essere nella posizione di semblant, ma d’altra parte deve esserlo. L’analista è logicamente nella posizione simbolica del semblant solo se ha incarnato l’oggetto a rispetto alla propria analisi, bisogna andare a verificarlo, Lacan dice che per arrivare a cogliere quel punto bisogna sudare sette camicie.
Successivamente, Lacan fa dopo un passaggio sul cogito ergo sum. Dopo aver parlato dello svuotamento degli oggetti a da quel posto, da quel vuoto, dice: «Ecco, la configurazione che però intendo tracciare, introducendo la mia terza, è un’altra. L’onomatopea che mi è venuta in modo un po’ personale mi favorisce – tocchiamo ferro – per il fatto che il ron-ron è senza dubbio il godimento del gatto». Lacan fa spesso riferimento al godimento del gatto, noi diciamo “fa le fusa”, ma non rende il francese ronronner che assomiglia un po’ anche a ronfler, russare. Una delle questioni che Lacan si pone è in che rapporto stia il godimento rispetto al corpo. L’idea di Lacan è che il gatto goda, anche se, dice, non ne sappiamo niente. Però c’immaginiamo che goda, c’immaginiamo che i gigli godano, questo l’ha detto qualcun’altro un po’ prima di me, e dev’essere vero. E il corpo dell’uomo com’è che gode là? Dove lo mettiamo il godimento rispetto al corpo? In La terza il cogito va verso quel versante. Un’altra lettura di Lacan del cogito è “penso dove non sono, sono dove non penso”. Evidentemente si possono collegare. «Se esso passi dalla laringe o altrove, proprio non lo so; quando l’accarezzo, sembra che sia di tutto il corpo, ed è ciò che mi fa accedere al punto da cui intendo partire. Parto da qui, e non vi dò necessariamente la regola del gioco, ma dopo verrà. “Penso dunque si gode” rigetta il “dunque” consueto, quello che dice je souis». C’è un passaggio a tre punti:
1.   Je pense je suis
2.   Je pense je souis
3.   Je pense se jouit
Passa dal primo al terzo. Presto Lacan indica che questo je pense non è del soggetto, è del soggetto in quanto è letto dall’Altro, è l’Altro che pensa je suis, je pense.  Indica che il pensiero è sempre di troppo. Siamo ingombrati dai nostri pensieri. I pensieri si accumulano come problemi che vengono da fuori, di quel che ci è stato indicato nella vita… Il “tu dove sei” non è nel pensiero ma, al limite, si può dire tra i pensieri, tra un significante e l’altro. La definizione di musica di Mozart è: è il silenzio tra due note. Anche l’analisi ha a che fare con questo.
Je suis, in souis c’è il verbo essere (suis) e c’è il verbo godere (jouis), li mette insieme. Dal verbo essere passa al verbo essere-godere, ed è qui che Lacan interroga Cartesio, per passare poi al godimento che gode in un corpo.
A pagina 19 tratta del sintomo: «Siamo seri, torniamo a ciò che sto tentando di dire. Devo sostenere questa terza con il reale che essa comporta, ed è per questo che vi pongo la questione al cui proposito le persone che hanno parlato con me, prima di me, hanno qualche sospetto, e lo hanno anche detto – che lo abbiano detto è segno che hanno il sospetto – la psicoanalisi è un sintomo? Sapete che quando pongo le questioni è perché ho la risposta. E sarebbe meglio che fosse la risposta giusta. Chiamo sintomo ciò che viene dal reale. Ciò vuol dire che si presenta come un pesciolino il cui becco vorace si richiude solo mettendo del senso sotto i denti. Allora delle due l’una: o questo lo fa proliferare (“crescete e moltiplicatevi”, ha detto il Signore; è davvero un po’ eccessivo, dovrebbe farci storcere il naso questo impiego del termine moltiplicazione; il Signore sa che cos’è una moltiplicazione, non certo un pullulare di pesciolini) oppure crepa». Forse nel testo francese c’è un en, e sarebbe “ne crepa”. «Sarebbe meglio, e ci dovremmo sforzare per ottenerlo, che il reale del sintomo crepasse; questa è la questione: come fare?». Più avanti: «Credo che lo sapessi già, anche se non ne avevo ancora fatto scaturire l’immaginario, il simbolico e il reale. Il senso del sintomo non è quello con cui lo si alimenta per la sua proliferazione o la sua estinzione. Il senso del sintomo è il reale, il reale in quanto si mette di traverso per impedire che le cose vadano avanti, nel senso di rendere conto di se stesse in modo soddisfacente. Soddisfacente almeno per il padrone (maître), cosa che non vuol dire che il servo (esclave) ne soffra in alcun modo, tutt’altro. Il servo, nella faccenda se ne sta tranquillo più di quanto non si creda, è lui che gode, contrariamente a quanto dice Hegel, il quale dovrebbe pur accorgersene, dato che è proprio per questo che si è lasciato convincere dal padrone». Penso che Lacan per il padrone di Hegel facesse riferimento a Napoleone. «Il senso del sintomo dipende dall’avvenire del reale, e dunque, come ho detto alla conferenza stampa, dalla riuscita della psicoanalisi. Ciò che le si chiede è di sbarazzarci sia del reale che del sintomo. Se essa succede, se ha successo rispetto a questa domanda, ci si può aspettare di tutto, ci si può per esempio aspettare un ritorno della vera religione, che come sapete non ha l’aria di deperire. Non è folle la vera religione, tutte le speranze per lei sono buone, essa le santifica».
Quello che si chiede alla psicoanalisi è di far sparire il reale e far sparire il sintomo… direi che questo tipo di ottica della psicoanalisi è esattamente quella che prende l’Internazionale. E in questo caso chi vincerà sarà la religione. Lacan quando parla di “religione” e di “chiesa” scivola sempre tra la religione intesa Romana e l’Internazionale freudiana, a volte è difficile capire se sta parlando dell’una o dell’altra. Quindi, quando dice che vincerà la vera religione Lacan dice che vincerà il tipo di psicoanalisi promossa dall’Internazionale, dove grazie alla psicoanalisi sparisce il reale e sparisce il sintomo: evidentemente è un’illusione.
«Ma se la psicoanalisi riesce, si spegnerà per il fatto di essere solo un sintomo dimenticato». Qui si rimane un po’ perplessi. La psicoanalisi per rimanere una psicanalisi lacaniana deve fallire! Fallimento rispetto al reale e al sintomo che però ci lascia tutto il problema del che ne facciamo del sintomo? «Non deve meravigliarsene, è il destino della verità, così come essa stessa lo pone in principio: la verità si dimentica. Tutto dipende dunque dal fatto che il reale insista. Per questo occorre che la psicoanalisi fallisca. Bisogna ammettere che è proprio la strada che sta prendendo e che quindi ha ancora delle buone possibilità di restare un sintomo, di crescere e di moltiplicarsi. “Psicoanalisti non morti, stop, segue lettera”».
Poi c’è un passaggio inatteso su un altro tipo di religione o, se lo si legge su questa lunghezza d’onda, su come la psicoanalisi lacaniana può diventare una religione. Una psicoanalisi diventa una religione quando terapeutizza il mondo, gli toglie il reale – poi dopo dirà che il reale è impossibile da togliere, ma facciamo finta che glielo si tolga –, che toglie il sintomo. Utilizzando Marx passa alla possibilità che la psicoanalisi lacaniana diventi una religione. «Quanto vi ho appena detto può essere stato inteso male, cioè nel senso di sapere se la psicoanalisi sia un sintomo sociale. Vi è un solo sintomo sociale: ogni individuo è realmente un proletario». Lacan dove piazza il proletario? Il proletario è l’oggetto a del discorso marxista. Lacan arriva addirittura a dire che Marx non ha inventato il capitalismo. C’era altra gente che sapeva godere della vita, dei quattrini e di altre cose, senza bisogno dei suoi scritti. Gli scritti di Marx mettono in valore il proletario, è il proletario che rende questa strutturazione ciò che chiamiamo capitalismo. «Vi è un solo sintomo sociale: ogni individuo è realmente un proletario, cioè non ha nessun discorso con cui fare legame sociale»: è esattamente la definizione dell’oggetto a, bisogna che sia preso dal discorso, «in altri termini sembiante. Cosa a cui Marx ha posto riparo in un modo incredibile: detto, fatto. Quel che ha formulato implica che non c’è niente da cambiare». Il punto per il quale Lacan considera il marxismo una religione è quando il proletario viene preso come il santo. Poi Marx cerca di portare il proletario al posto dell’operatore, del sembiante, cioè di far operare al proletario la posizione di agente. Se non c’è proletario, non c’è capitalista. Ci sarà sempre il ricco. Nel capitolo V del seminario XVII, Lacan differenzia in modo netto il ricco dal capitalista. Il ricco è sul versante di chi gode della vita, non di chi mette in moto l’organizzazione perché ci sia un godere di cui lui non può godere. Si tenga presente che siamo nel 1974 e il freudo-marxismo era molto in voga… non si capiva l’ironia che ne faceva Lacan.
«Socialmente la psicoanalisi ha una consistenza diversa dagli altri discorsi. È un legame a due. Proprio per questo si trova al posto della mancanza di rapporto sessuale. Il che non basta certo a farne un sintomo sociale, dato che un rapporto sessuale manca in tutte le forme di società». Il non c’è rapporto sessuale vale per tutti i discorsi, quindi non è lì la questione, non è lì che la differenzia dal marxismo. «È legato alla verità che fa la struttura di qualsiasi discorso. D’altronde proprio per questo non c’è una vera e propria società basata sul discorso analitico».
Altrove Lacan dice qual è la condizione per cui la psicoanalisi lacaniana può evitare di diventare una religione. È la questione che gli era stata posta il giorno prima, nel suo intervento a Piazza Campitelli, intervista pubblicata su Il trionfo della religione. Quando il discorso dell’analista mette questo vuoto nel posto del semblant, ricorda Lacan, l’analista lo deve incarnare. Quest’incarnazione è espressa in modo molto netto in Television e ripetuta nel testo, pronunciato a Nizza, Il fenomeno lacaniano. Ricorrendo al nodo borromeo, la differenza con il proletario è che Marx situa il proletario collegato con il godimento fallico, cioè il “per tutti”, mentre Lacan situa l’analista sul pas tout, e lo gioca sul “sono in due”. Nel discorso, Marx, situa il proletario nella posizione del discorso dell’analista, cioè lo mette in una situazione per cui tutto il discorso gira attorno al proletario. Però lo santifica. E poi dice: è il per tutti. Da quel momento diventa una religione. Invece, l’analista è nella posizione di oggetto a, che rimane però un pas tout, e ciò evita che il discorso analitico diventi una religione. Tuttavia, vi è un aspetto negativo: non può fare legame sociale. «D’altronde proprio per questo non c’è una vera e propria società fondata sul discorso analitico. C’è una scuola, che per l’appunto non si definisce come società. Si definisce per il fatto che (io) vi insegno qualcosa». Qui indica la posizione che Lacan ha preso rispetto a Freud: “io insegno qualcosa”. Rispetto all’organizzazione che lui ha creato, che ha chiamato École Freudienne de Paris, si è situato come l’oggetto a. Freud si situava nella posizione del padre morto, tant’è che non è mai stato presidente dell’Internazionale. Lacan si situa in quella posizione, nello stesso tempo sapeva che essere in quella posizione voleva dire essere nella posizione di essere scartato... questo lascia da pensare per il nostro futuro.

Lacan, nel suo insegnamento, opera uno spostamento dal linguaggio a lalingua. Mantiene la posizione dell’inconscio strutturato come un linguaggio, allo stesso tempo il linguaggio non è più quello dell’ordine dei linguisti. Cos’è che Lacan intende per lalangue? Anche nel testo c’è uno scivolamento, a volte lalangue lo scrive con una sola parola, in altre la langue. Nel testo si notano delle imperfezioni, addirittura un lapsus che fa morire il povero Lévi-Strauss, mentre si trattava di Merleau-Ponty (Cavasola l’ha corretto, ma lui non disse “Merleau-Ponty”, disse che era morto Lévi-Strauss). Imprecisioni che sono uno dei problemi nella traduzione di Lacan, perché non si sa se si tratta di un errore, se è un gioco di parole, oppure se fatto apposta o se non è fatto apposta.
Pagina 23: «L’interpretazione, ho formulato, non è interpretazione di senso, ma gioco sull’equivoco». L’idea di Lacan è che se si dà senso non si fa altro che innaffiare il prato del sintomo, e così il prato cresce. L’analista taglia l’erba, e non la fa crescere. È la differenza rispetto ai post-freudiani, loro fan venir su l’erba, noi la tagliamo. «Proprio per questo ho messo l’accento sul significante nella lingua. L’ho indicato con l’istanza della lettera, per farmi intendere dal vostro po’ di stoicismo. Ne risulta, ho aggiunto da allora senza nessun effetto, che l’interpretazione si opera partendo da lalingua, il che non impedisce che l’inconscio sia strutturato come un linguaggio», fa una differenza netta tra lalingua e il linguaggio, «uno di quei linguaggi di cui è appunto compito dei linguisti far credere che lalingua sia animata (...). Lalingua è quel che permette di considerare che il voto (voeu), l’augurio, non a caso è anche il vuole (veut) (...)».
La lingua ha delle particolarità proprie. Ogni lingua ha una genialità. Lacan sottolinea la genialità francese e indica che non è la genialità di tutte le lingue. Indicherà che c’è una genialità nel giapponese che per lui è estranea, però se ne farà qualcosa. Dove la troviamo questa genialità della lingua italiana? È chiaro che c’è il gioco dell’equivoco, noi a volte abbiamo delle facilitazioni sull’equivoco, soprattutto sul fatto che chi ci parla ci dà del Lei. Il “lei” si applica a tanti oggetti, dalla madre all’amante, ecc… C’è uno scivolamento forte, facile da percepire, da intuire. Un’altra cosa che ho notato, che a mio parere è più tipica della lingua italiana, è l’equivoco di tipo logico più che verbale: quando una persona sta dicendo una cosa e il suo rovescio contemporaneamente, c’è qualcosa che logicamente non sta in piedi, quel che è detto non corrisponde con quello che segue; generalmente non è una parola, è più nell’ordine di una frase nella quale una contraddizione è detta immediatamente dopo. In francese è facile il lapsus sulla parola sola. Una di Lacan è quando dice: le sujet parle au lieu de l’Autre. Come tradurlo? Correttamente è “in luogo”, che vuol dire “in vece” dell’Altro. Nel dizionario au lieu non ha mai il senso “nel luogo” dell’Altro. Lo scivolamento è tra “in luogo dell’Altro” o “dans le lieu de l’Autre”. Di solito, quando parliamo tra di noi, si sente piuttosto “nel luogo dell’Altro”. Il Littré lo esclude, però il fatto che lo escluda non vuol assolutamente dir niente per Lacan. C’è uno scivolamento tra “in luogo dell’Altro” e “nel luogo dell’Altro”. Non è “al posto dell’Altro”, le lieu e la place non sono uguali per Lacan. Questo genere di cose sono più difficili da tradurre del gioco di parole, perché il gioco di parole lo s’inventa. Ne L’Étourdit si trovano falloir e faillir, in francese sono differenti, in italiano si congiungono, come del resto in latino. Ne La terza ne indica alcuni: «Lalingua è quel che permette di considerare che il voto (voeu), l’augurio, non a caso è anche il vuole (veut) di volere, terza persona dell’indicativo; e non è neanche un caso se il no (non) negante è il nome (nom) nominante; e che di loro (d’eux) (“di” prima del “loro” che designa quelli di cui si parla) sia fatto nello stesso modo della cifra due (deux) non è un puro caso, e non è nemmeno arbitrario, come dice Saussure. Occorre considerare in che modo il deposito, il sedimento, la petrificazione da parte di un gruppo della propria esperienza inconscia vi lasci il segno». Qui vi è la risposta all’inconscio junghiano. Lacan non considera che ci sia un inconscio collettivo, considera che in un gruppo, in un popolo, ci sia una sedimentazione che viene poi utilizzata nel gioco dell’inconscio delle persone, ma che non è identica. Lacan arriva a dire che la lingua è dell’ordine di una lingua che non può dirsi vivente anche se in uso: è una sedimentazione. Semmai, arriva addirittura a dire che essa veicola la morte del segno.
«Il fatto che l’inconscio sia strutturato come un linguaggio non impedisce alla lingua di giocare contro il suo godere, giacché essa si è fatta di questo godere stesso. Quel soggetto supposto sapere che è l’analista nel transfert, non è supposto a torto se sa in cosa consiste l’inconscio: un sapere che si articola da lalingua, dove il corpo che parla è annodato solo dal reale di cui “si gode”». È la definizione dei tre godimenti nel nodo borromeo. Definizione da interrogare prendendo, ad esempio, Lituraterre e la prefazione agli Scritti in giapponese. Come è che avviene in un altro gruppo dove la sedimentazione non è esattamente uguale? Lacan indica che c’è una particolarità de lalangue, che è specifica. Attenzione, c’è tutta una teoria secondo cui l’inconscio, per esempio, italiano non è l’inconscio spagnolo. Non è di quest’ordine ciò di cui Lacan parla. Piuttosto, Lacan parla di sedimentazioni che hanno degli effetti per il soggetto che le utilizza. In Giappone arriva a dire che la distanza è tale che lui non riesce a capire a cosa servirebbe che un giapponese leggesse gli Scritti.
Lacan porta un esempio di come funziona lalingua nelle virtù teologali, a pagina 26: «Giacché siamo a Roma, cercherò di darvi un’idea di cosa ne sia di questa unità del significante da ricercare. Come sapete, ci sono le famose tre virtù dette appunto teologali. Qui le vediamo presentarsi sui muri proprio ovunque sotto forma di donne formose. Il minimo che si possa dire è che trattandole come sintomi non si esagera poi tanto, giacché definire il sintomo, come io l’ho fatto partendo dal reale, vuol dire che le donne, il reale, lo esprimono molto bene e infatti, insisto, le donne sono non-tutte. A questo punto, se designassi la fede, la speranza e la carità come la foire, laisse-père-ogne, (“lasciate ogni speranza” è un metamorfema come un altro, visto che prima mi avete fatto passare ourdrome) se le denominassi così e finissi con la tipica cilecca, cioè l’archiraté», in francese vuol dire “far cilecca a letto”, o una cosa che è archiraté significa che andata male, che non funziona, «mi sembrerebbe di avere un’incidenza più effettiva sul sintomo di queste tre donne». Con esempi gioca sull’utilizzo de lalangue. Il giorno prima Lacan aveva fatto un gioco sulla foire: Lacan diceva la foire, il giornalista diceva “no sto parlando della foi”; la foire in francese non vuol solamente dire “la fiera” ma anche “la cacarella”.
Tutto questo serve, esattamente, per l’interpretazione.
Segue un passaggio in cui Lacan fa riferimento alle tre questioni di Kant, che Miller riporta in Televisione [Rif.: in Altri Scritti, pag. 529 e sg.]: che cosa posso sperare? che cosa posso fare? che cosa posso sapere? Questioni cui Miller fa riferimento esattamente alla persona che le ha pensate, un domenicano del XIII secolo, e che servivano per la formazione dei domenicani, che Kant riprenderà. Lacan risponde a Miller quasi interrogando la singolarità di Miller, parlando a lui direttamente, non a un voi generale.
«Ho fatto questo esempio per non arenarmi in ciò che vi avevo dato all’inizio come gioco, per esempio di ciò che occorre per trattare un sintomo, quando ho detto che l’interpretazione, per non essere qualcosa che alimenta il sintomo di senso, deve mirare a quel che c’è di essenziale nel gioco di parole» al modo di Marcel Duchamp. «Quello slittamento della fede (foi), della speranza, e della carità verso la foire (...) è uno dei miei sogni».

Trascrizione: Sofia Gessi
Redazione: Giuseppe Perfetto