lunedì 14 dicembre 2015

Seminario del 19 settembre 2015 --------------------- Docente invitato: Antonio Di Ciaccia

LA TERZA

Ho iniziato ad ascoltare Lacan dal ‘72, con il famoso seminario XX. Ho ancora i miei appunti, e risultano perfetti. Lacan parlava molto lentamente e si poteva prender nota.
Due anni dopo, nel ‘74, ci fu un convegno di semiologia a Milano, organizzato da Umberto Eco. Lacan fece in modo che, non so per quali giri, anche Alfredo Zenoni venisse dal Belgio, e in quell’occasione fondò La Cause Freudienne a mezzogiorno e la chiuse la sera a mezzanotte. Fu veramente un’apertura/chiusura con il famoso tripode.
Qualche mese dopo ci fu il VII Convegno dell’École Freudienne de Paris a Roma, a Santa Cecilia. Lacan aveva scritto sessantasei pagine, non le lesse tutte, anzi non lesse il testo, praticamente improvvisò e questa fu poi la registrazione de La terza. Su internet ve ne sono diverse versioni, la più precisa è quella dell’École Freudienne de Paris, e la traduzione in italiano di Roberto Cavatola pubblicata in La Psicoanalisi [n. 12] è stata fatta a partire da questa. Nel 1974 era evidentemente il Lacan ancora pieno di vita.
Leggerò qualche parte de La terza in modo da darne un quadro.
Vorrei indicare una cosa che è da tener presente in Lacan. Dice che non ama i testi così... strambi, piuttosto ama i gialli. Nel seminario VI Lacan dice che c’è un moyen in ogni giallo, un mezzo che guida tutto il filo. Lacan scrive in quel modo là, fa lezione in quel modo là, parla in quel modo là, cioè ha più strati. Quello che veramente gli interessa non lo dice, ve lo lascia ricercare, non si trova. Notate bene che non si trova anche quando lui ha rivelato i giochi. Un enigma rimane un enigma anche quando è stato rivelato, è la sua frase famosa. Quindi, di ogni testo è da chiedersi qual è il punto, qual è il moyen, ciò che dirige tutta quanta la faccenda, e che volutamente non è visibile. Un esempio, che si trova nel seminario VI, è nell’Amleto di Shakespeare dove tutto si gioca attorno al fallo, di cui non se ne parla se non a un certo momento verso la fine. Tutta l’operazione è guidata dalla questione del fallo che però non viene fuori in primo piano.
Miller dice che Lacan non fa mai un compendio. È vero, però Lacan quando scrive, non quando fa lezione, fa un check-up della sua posizione rispetto a dove è arrivato in quel momento. Ad esempio in Allocuzione sulle psicosi infantili, del ‘68, Lacan in realtà fa il check-up della sua lettura dell’inconscio freudiano, dove ad un certo momento inserisce la questione del bambino autistico. Stessa cosa la sta facendo con La terza, e praticamente dice nel ‘74 a che punto è. Il più straordinario di questo percorso lo trovo nel brevissimo testo su Joyce, che è assolutamente apparentemente illeggibile, però se si segue questa linea di lettura si trova che è perfettamente in linea, e va dall’inizio alla fine calmo calmo.
La chiama La terza perché è la terza volta che parla a Roma… è un po’ il suo modo di fare rispetto ai testi: chiama Scritti gli scritti perché Seuil gli aveva mandato il blocco dei suoi scritti e non sapendo che mettere ha scritto “Scritti di Jacques Lacan” e lui disse “questo è il titolo”, oppure stessa cosa per Télévision.
La seconda volta che parla in Italia è nel ‘67, a Roma, Napoli e Milano: tre testi estremamente importanti presenti negli Altri scritti.
Il primo è il Discorso di Roma, quello che ha dato inizio al suo insegnamento. Sul “Discorso” di Roma fa un gioco di parole. Facendo riferimento a Gérard de Nerval dice: ça dit ce que. Il ça è l’es freudiano, ci si è rotti la testa per cercare di tradurlo, comunque è, scusate se dico “inconscio” perché non è inconscio: “l’inconscio dice ciò che”, dit ce que diventa disque in francese quindi è come “l’inconscio dice che”, disque. “Discorso di Roma”, disque-ours de Rome: lì c’è questo gioco, lo ricordo, non ero tanto lontano da dove parlava: disque-ourdrome. Leggetelo dit-ce-que, che ha a che fare con quello che insiste dalla parte dell’inconscio, e poi ourdrome, che è rimasto enigmatico. Riprende più avanti per due volte l’ur. Ur vuol dire il discorso fondativo, ur de rome, come Ur-Hamlet, quelli che precedono Amleto. Fa riferimento all’Urverdrängung di Freud, che è il punto cieco dell’inconscio freudiano. C’è questo gioco che lancia all’improvviso, bisogna dire che ha gelato tutti quanti perché nessuno aveva capito esattamente, invece è molto preciso, logico, perché lega le disque, quello che l’inconscio dice, – ourdrome, il primo discorso di Roma, il discorso fondativo della psicoanalisi secondo lui, lo lega con il finale, che è semplicemente “come io rendo oggi il discorso di Roma”, ovvero il nodo borromeo.
A pagina 22 Lacan dice: «Questa terza la leggo, mentre potete forse ricordare che nella prima, che vi fa ritorno, avevo creduto di doverci mettere la mia parlanza (parlance), poi la si è stampata, col pretesto che vi era stato distribuito il testo. Se oggi faccio solo ourdrome, spero non vi sia di ostacolo a intendere ciò che leggo. Se è di troppo, me ne scuso». E poi ritorna alla prima, cioè cosa ha detto nel Discorso di Roma nel ‘53. Il Discorso di Roma lui lo lega, dall’inizio alla fine, intorno a RSI. Dirà che prima ancora del Discorso di Roma ha scritto un testo su Reale, Immaginario e Simbolico, che trovate pubblicato da Einaudi, in Dei Nomi-del-Padre, un testo semplice, comprensibile, che dà il punto in cui Lacan era a quel momento… ma non dà l’RSI della fine.
Nel nodo borromeo Lacan cercherà di mettere tutto lo sviluppo che ha dato alla psicoanalisi, e piazzerà i tre godimenti che circolano intorno a un punto, che è per lui il moyen, che chiamerà oggetto a. Qui esplode la differenza con l’Internazionale, perché in quel punto centrale l’Internazionale ci mette il fallo, Lacan no perché se ci fosse il fallo ci sarebbe rapporto sessuale, questo è il punto di fondo. L’essere umano invece rimane con una mancanza costitutiva, mancanza costitutiva incarnata nell’oggetto a, che non è tanto quello che viene a riempirlo, che fa finta di sostituire quello che manca, ma è semplicemente il vuoto, il “vacuolo” come lo chiama nel seminario XI.
Pagina 29. Qui c’è un errore di traduzione, comprensibile: ça se jouit. Il ça è tradotto “ciò si gode”, mentre è intraducibile. Io ho sempre messo che si salta questo soggetto, però bisogna indicare che si salta, perché è dell’ordine del “capita”, “avviene”, cioè chi è che gode non è dell’ordine di un soggetto. Già dirlo ça è di troppo, in italiano quasi rende meglio l’impossibilità di dirlo. «Dove si situa dunque questo “si gode” (ça se jouit) nei miei registri categorici dell’immaginario, del simbolico e del reale?».
A pagina 34, subito dopo lo schema della figura 6 del nodo borromeo: «Come vi ho già detto prima, è su questo posto del più di godere che si innesta ogni godimento», quindi prima cerca di situarlo, e poi lo pone al centro dell’intersezione tra i tre godimenti. I tre godimenti sono: la jouissance phallique, la jouissance de l’Autre e il senso.
Pagina 12: «Poiché non devo parlare troppo a lungo, vi do una dritta: questo ourdrome mi dà semplicemente l’occasione di mettere la voce sotto la rubrica dei quattro oggetti da me detti a, ossia di risvuotarla della sostanza che ci potrebbe essere nel rumore che fa e di metterla in conto all’operazione significante (...)». Qui fa un passaggio dell’oggetto a. All’oggetto a Lacan fa fare tre passaggi molto precisi. Parte dall’oggetto come tradizionalmente la psicoanalisi kleiniana considerava l’altro, così diciamo che il primo oggetto è la madre… fa sempre un po’ strano chiamare le persone “oggetto”. Winnicott darà una posizione precisa rispetto a quest’oggetto, il cui ordine si trova nel Discorso sulla psicosi infantile dove Lacan evoca l’oggetto transizionale situandolo all’interno della sua logica, dicendo a Winnicott che dal punto di vista clinico è là, ma non dal punto di vista logico, che invece è là. In questo passaggio l’oggetto a si sdoppia nella madre, che prende la posizione del grande Altro, e nell’altro, la posizione del doppio, il simile, dell’a piccolo. Poi lo sposta sul versante dell’oggetto al di là del significante, ma gli dà un posto nel significante, e questo si trova in un passaggio preciso de La direzione della cura, dove Lacan mette addirittura in corsivo (quando Lacan mette in corsivo vuol dire diverse cose, ma in quel caso vuol dire che vuole dargli risonanza) che questo oggetto è dell’ordine significante, per passare poi ad un’altra consistenza che qui chiamerà logica, che in realtà rinvia alla questione del godimento. Il passaggio sull’oggetto a si può riprendere a pagina 19: «Quando penso che mi sono divertito un po’ a fare un gioco tra questo S1, che avevo portato alla dignità del significante Uno, che ho giocato con questo Uno e con l’a, annodandoli con il numero aureo, è il massimo! Voglio dire che scriverlo gli dà la sua portata. Di fatto, era per illustrare la vanità di qualunque coito con il mondo, cioè di quello che sin qui abbiamo chiamato la conseguenza. E infatti al mondo non c’è nient’altro che un oggetto a, cacatura o sguardo, voce o tetta, che divide il soggetto e lo trucca in quello scarto che ex-siste al corpo». Da qui passa a centrare l’oggetto a nel nodo borromeo. Nel testo, c’è un movimento che fa passare l’oggetto a dalla realtà ad una situazione in cui questa realtà viene strutturata tra grande Altro e piccolo altro, che però dev’essere al livello del simbolico, altrimenti non è leggibile, ed è proprio in quel punto che può essere letto a livello della logica, quindi sul nodo borromeo. Lacan riprende l’oggetto a anche al livello dei quattro discorsi, a pagina 16: «Che siano cerchi del nodo borromeo non è comunque una buona ragione per inciamparvi». Utilizza un termine ambiguo: y prendre le pied in francese vuol dire anche “masturbarsi”, o “godere”, si può dire anche di una donna j’ai pris mon pied là, Cavasola [il traduttore] scrive “godersela”, “passarsela”, anche “inciampare”. «Non è questo che chiamo pensare con i piedi. Bisognerebbe che vi lasciaste qualcosa di ben diverso da un membro – parlo degli analisti –, si tratterebbe di lasciarvi quell’oggetto insensato che ho specificato con a. È proprio questo che si acchiappa all’incastro tra il simbolico, l’immaginario e il reale, come nodo. Acchiapparlo nel modo giusto», e c’è una deriva dalla logica alla clinica: «vi consente di rispondere alla vostra funzione: offrirlo come causa del suo desiderio al vostro analizzante. Ecco quel che si tratta di ottenere» in una psicoanalisi. Poi dice una frase piuttosto pesante per gli analisti: «Ma se doveste mettere un piede in fallo», si noti ancora il gioco sul piede, «non è poi così terribile, l’importante è che avvenga a vostre spese». Articola il rapporto fra l’oggetto a rispetto al nodo borromeo, poi lo situa rispetto alla pratica analitica. Sul nodo borromeo è come dovreste pensare che ci siano i tre godimenti e come articolarli, come fare in modo che da questi tre venga estratto quel punto, potremmo dire quel moyen del giallo, il giallo di ogni analisi. E Lacan diventa più operativo: lo deve mettere in forma nel discorso dell’analista, a pagina 16: «Non immaginatevi che ne abbia avuto, io, l’idea. Ho scritto oggetto a, è completamente diverso. Ciò lo accomuna alla logica, cioè lo rende operante nel reale a titolo d’oggetto di cui, per l’appunto, non vi è idea. Cosa che, bisogna dirlo, rappresentava un buco finora in ogni teoria (...)». Lacan prende questo buco e lo piazza al posto giusto. Prende l’oggetto a come buco e lo inserisce nei quattro discorsi, come ciò che permette agli altri discorsi di risituarsi, di interrogarsi su cosa sono. L’idea di Lacan è che è solo a partire dal discorso analitico che vi è un’interrogazione sul discorso del padrone, dell’universitario, dell’isterico.
«Cosa che, bisogna dirlo, rappresentava un buco finora in ogni teoria, qualunque essa fosse». Lacan dice che ogni teoria è una teologia, cioè che ogni teoria si basa sul riempimento di quel buco. È quel buco pieno ciò che dà struttura di religione a ogni teoria. «L’oggetto di cui non si ha idea. È questo che giustifica le mie riserve di poc’anzi rispetto al presocratismo di Platone», fa riferimento al Parmenide. «Non che egli non ne abbia avuto la sensazione. Il sembiante è ciò in cui è immerso senza saperlo».
La figura 2 a pagina 24 mostra i tre godimenti, con l’oggetto a che fa buco e permette i tre godimenti. L’oggetto a è da reperire in un’analisi. In un’analisi come si articola questo? Nei quattro discorsi, Lacan dà il posto a ogni elemento (S1, S2, a, $), glielo dà non solo come elemento ma per il posto che occupano. In basso a sinistra è il posto della verità, in alto a sinistra è il posto del sembiante. Nel discorso normale, che è dell’inconscio ma nello stesso tempo è il discorso della vita corrente, il buco viene in basso a destra. Ad esempio, incontrate un poliziotto il quale vi dice: “Documenti”. Il signor Mario Rossi si presenta e dà i documenti. Lui potrebbe dire per esempio: “Lei non sa chi sono io”, che è un voler dare un S2 barrando l’S1, cioè io ti barro completamente. Ad ogni modo, di solito si danno i due elementi per cui uno è riconosciuto. Però rimarreste perplessi se vi dicesse: “Com’è che ha scopato stanotte con sua moglie?”. Qualcosa di quell’ordine non è pensabile. Voi mi direte: era così in certe epoche. Le epoche che hanno permesso un’interrogazione sull’oggetto a di quel tipo. L’oggetto a l’hanno fatto spostare. Dove uno può fare una domanda di quel tipo Lacan lo chiamerà il “discorso universitario”. Per Lacan il discorso universitario non è il discorso dell’universitario. Il discorso universitario è il discorso della burocrazia staliniana. Nel discorso corrente, però, il problema è che l’oggetto a rimane un buco. L’imbroglio di Freud sarà di far uscire l’oggetto a. L’imbroglio è: “Adesso che lei è sul divano dica tutto quello che le viene in mente”. L’imbroglio è che farà venir fuori quello quando di per se stesso non verrebbe fuori. Dal resto, l’interpretazione dell’analista è per provocare che nel discorso che fa l’inconscio si situi quel che non è dicibile. Non è dicibile perché c’è della vergogna, ed anche per una altro senso.
A pagina 17 Lacan tocca l’argomento del sembiante: «Non vi è discorso in cui il sembiante non conduca il gioco. E tuttavia non è una buona ragione perché l’ultimo venuto, il discorso analitico, debba sfuggirvi e con il pretesto che questo discorso è l’ultimo venuto voi vi sentiate a disagio al punto di farne, secondo l’uso con cui si impettiscono i vostri colleghi dell’Internazionale, un sembiante più sembiante che al naturale, un sembiante ostentato. Ricordatevi comunque che il sembiante di ciò che parla come tale è sempre presente in qualunque tipo di discorso lo occupi. È persino una seconda natura. E allora siate più distesi, più naturali, quando ricevete qualcuno che viene a chiedervi un’analisi. Non sentitevi obbligati ad alzare la cresta, anche come pagliacci siete giustificati ad essere». Che meraviglioso Lacan… devo dire che lui come attore... chapeau. «Basta che guardiate la mia Televisione: sono un clown. Prendete esempio e non imitatemi. Il serio che mi anima è la serie che voi costituite». Continua: «Il simbolico, l’immaginario e il reale sono l’enunciato di ciò che opera effettivamente nella parola quando vi situate a partire dal discorso analitico, quando – analisti – lo siete. Ma tali termini emergono solo per e attraverso questo discorso». Il problema è come si fa a portare questa problematica al livello che lui dice, ovvero che il discorso analitico è dell’ordine del sembiante. Lacan fa una differenza: il discorso analitico richiede che l’analista occupi la posizione di semblant, ma la posizione di semblant non è faire semblant, non è far finta. Chiunque si metta in quella posizione, in alto a destra nei quattro discorsi, è sempre nella posizione di semblant. Anche il discorso analitico non sfugge a questa regola. Nella concezione teologica quel punto non può essere del semblant ma del vero, ed è quello che passa come la Verità, con la V maiuscola, non del vero o falso ma la verità come “Io sono La Verità” del Vangelo, o quella del Corano. L’analista se si mette in quella posizione credendo che non è quella di semblant, Lacan dice, «alza la cresta». Lacan ricorda che l’analista non può non sapere che quella posizione è dell’ordine del semblant. L’analista paranoico si mette in quella posizione e dice “sono semblant tutti quanti al di fuori di me”, e l’analista canaglia dice: “so benissimo che è dell’ordine del semblant però fregherò il mio analizzante facendogli credere che sono esattamente in quel posto”… non sempre la canaglia coincide col paranoico.
L’analista non può che essere nella posizione di semblant, ma d’altra parte deve esserlo. L’analista è logicamente nella posizione simbolica del semblant solo se ha incarnato l’oggetto a rispetto alla propria analisi, bisogna andare a verificarlo, Lacan dice che per arrivare a cogliere quel punto bisogna sudare sette camicie.
Successivamente, Lacan fa dopo un passaggio sul cogito ergo sum. Dopo aver parlato dello svuotamento degli oggetti a da quel posto, da quel vuoto, dice: «Ecco, la configurazione che però intendo tracciare, introducendo la mia terza, è un’altra. L’onomatopea che mi è venuta in modo un po’ personale mi favorisce – tocchiamo ferro – per il fatto che il ron-ron è senza dubbio il godimento del gatto». Lacan fa spesso riferimento al godimento del gatto, noi diciamo “fa le fusa”, ma non rende il francese ronronner che assomiglia un po’ anche a ronfler, russare. Una delle questioni che Lacan si pone è in che rapporto stia il godimento rispetto al corpo. L’idea di Lacan è che il gatto goda, anche se, dice, non ne sappiamo niente. Però c’immaginiamo che goda, c’immaginiamo che i gigli godano, questo l’ha detto qualcun’altro un po’ prima di me, e dev’essere vero. E il corpo dell’uomo com’è che gode là? Dove lo mettiamo il godimento rispetto al corpo? In La terza il cogito va verso quel versante. Un’altra lettura di Lacan del cogito è “penso dove non sono, sono dove non penso”. Evidentemente si possono collegare. «Se esso passi dalla laringe o altrove, proprio non lo so; quando l’accarezzo, sembra che sia di tutto il corpo, ed è ciò che mi fa accedere al punto da cui intendo partire. Parto da qui, e non vi dò necessariamente la regola del gioco, ma dopo verrà. “Penso dunque si gode” rigetta il “dunque” consueto, quello che dice je souis». C’è un passaggio a tre punti:
1.   Je pense je suis
2.   Je pense je souis
3.   Je pense se jouit
Passa dal primo al terzo. Presto Lacan indica che questo je pense non è del soggetto, è del soggetto in quanto è letto dall’Altro, è l’Altro che pensa je suis, je pense.  Indica che il pensiero è sempre di troppo. Siamo ingombrati dai nostri pensieri. I pensieri si accumulano come problemi che vengono da fuori, di quel che ci è stato indicato nella vita… Il “tu dove sei” non è nel pensiero ma, al limite, si può dire tra i pensieri, tra un significante e l’altro. La definizione di musica di Mozart è: è il silenzio tra due note. Anche l’analisi ha a che fare con questo.
Je suis, in souis c’è il verbo essere (suis) e c’è il verbo godere (jouis), li mette insieme. Dal verbo essere passa al verbo essere-godere, ed è qui che Lacan interroga Cartesio, per passare poi al godimento che gode in un corpo.
A pagina 19 tratta del sintomo: «Siamo seri, torniamo a ciò che sto tentando di dire. Devo sostenere questa terza con il reale che essa comporta, ed è per questo che vi pongo la questione al cui proposito le persone che hanno parlato con me, prima di me, hanno qualche sospetto, e lo hanno anche detto – che lo abbiano detto è segno che hanno il sospetto – la psicoanalisi è un sintomo? Sapete che quando pongo le questioni è perché ho la risposta. E sarebbe meglio che fosse la risposta giusta. Chiamo sintomo ciò che viene dal reale. Ciò vuol dire che si presenta come un pesciolino il cui becco vorace si richiude solo mettendo del senso sotto i denti. Allora delle due l’una: o questo lo fa proliferare (“crescete e moltiplicatevi”, ha detto il Signore; è davvero un po’ eccessivo, dovrebbe farci storcere il naso questo impiego del termine moltiplicazione; il Signore sa che cos’è una moltiplicazione, non certo un pullulare di pesciolini) oppure crepa». Forse nel testo francese c’è un en, e sarebbe “ne crepa”. «Sarebbe meglio, e ci dovremmo sforzare per ottenerlo, che il reale del sintomo crepasse; questa è la questione: come fare?». Più avanti: «Credo che lo sapessi già, anche se non ne avevo ancora fatto scaturire l’immaginario, il simbolico e il reale. Il senso del sintomo non è quello con cui lo si alimenta per la sua proliferazione o la sua estinzione. Il senso del sintomo è il reale, il reale in quanto si mette di traverso per impedire che le cose vadano avanti, nel senso di rendere conto di se stesse in modo soddisfacente. Soddisfacente almeno per il padrone (maître), cosa che non vuol dire che il servo (esclave) ne soffra in alcun modo, tutt’altro. Il servo, nella faccenda se ne sta tranquillo più di quanto non si creda, è lui che gode, contrariamente a quanto dice Hegel, il quale dovrebbe pur accorgersene, dato che è proprio per questo che si è lasciato convincere dal padrone». Penso che Lacan per il padrone di Hegel facesse riferimento a Napoleone. «Il senso del sintomo dipende dall’avvenire del reale, e dunque, come ho detto alla conferenza stampa, dalla riuscita della psicoanalisi. Ciò che le si chiede è di sbarazzarci sia del reale che del sintomo. Se essa succede, se ha successo rispetto a questa domanda, ci si può aspettare di tutto, ci si può per esempio aspettare un ritorno della vera religione, che come sapete non ha l’aria di deperire. Non è folle la vera religione, tutte le speranze per lei sono buone, essa le santifica».
Quello che si chiede alla psicoanalisi è di far sparire il reale e far sparire il sintomo… direi che questo tipo di ottica della psicoanalisi è esattamente quella che prende l’Internazionale. E in questo caso chi vincerà sarà la religione. Lacan quando parla di “religione” e di “chiesa” scivola sempre tra la religione intesa Romana e l’Internazionale freudiana, a volte è difficile capire se sta parlando dell’una o dell’altra. Quindi, quando dice che vincerà la vera religione Lacan dice che vincerà il tipo di psicoanalisi promossa dall’Internazionale, dove grazie alla psicoanalisi sparisce il reale e sparisce il sintomo: evidentemente è un’illusione.
«Ma se la psicoanalisi riesce, si spegnerà per il fatto di essere solo un sintomo dimenticato». Qui si rimane un po’ perplessi. La psicoanalisi per rimanere una psicanalisi lacaniana deve fallire! Fallimento rispetto al reale e al sintomo che però ci lascia tutto il problema del che ne facciamo del sintomo? «Non deve meravigliarsene, è il destino della verità, così come essa stessa lo pone in principio: la verità si dimentica. Tutto dipende dunque dal fatto che il reale insista. Per questo occorre che la psicoanalisi fallisca. Bisogna ammettere che è proprio la strada che sta prendendo e che quindi ha ancora delle buone possibilità di restare un sintomo, di crescere e di moltiplicarsi. “Psicoanalisti non morti, stop, segue lettera”».
Poi c’è un passaggio inatteso su un altro tipo di religione o, se lo si legge su questa lunghezza d’onda, su come la psicoanalisi lacaniana può diventare una religione. Una psicoanalisi diventa una religione quando terapeutizza il mondo, gli toglie il reale – poi dopo dirà che il reale è impossibile da togliere, ma facciamo finta che glielo si tolga –, che toglie il sintomo. Utilizzando Marx passa alla possibilità che la psicoanalisi lacaniana diventi una religione. «Quanto vi ho appena detto può essere stato inteso male, cioè nel senso di sapere se la psicoanalisi sia un sintomo sociale. Vi è un solo sintomo sociale: ogni individuo è realmente un proletario». Lacan dove piazza il proletario? Il proletario è l’oggetto a del discorso marxista. Lacan arriva addirittura a dire che Marx non ha inventato il capitalismo. C’era altra gente che sapeva godere della vita, dei quattrini e di altre cose, senza bisogno dei suoi scritti. Gli scritti di Marx mettono in valore il proletario, è il proletario che rende questa strutturazione ciò che chiamiamo capitalismo. «Vi è un solo sintomo sociale: ogni individuo è realmente un proletario, cioè non ha nessun discorso con cui fare legame sociale»: è esattamente la definizione dell’oggetto a, bisogna che sia preso dal discorso, «in altri termini sembiante. Cosa a cui Marx ha posto riparo in un modo incredibile: detto, fatto. Quel che ha formulato implica che non c’è niente da cambiare». Il punto per il quale Lacan considera il marxismo una religione è quando il proletario viene preso come il santo. Poi Marx cerca di portare il proletario al posto dell’operatore, del sembiante, cioè di far operare al proletario la posizione di agente. Se non c’è proletario, non c’è capitalista. Ci sarà sempre il ricco. Nel capitolo V del seminario XVII, Lacan differenzia in modo netto il ricco dal capitalista. Il ricco è sul versante di chi gode della vita, non di chi mette in moto l’organizzazione perché ci sia un godere di cui lui non può godere. Si tenga presente che siamo nel 1974 e il freudo-marxismo era molto in voga… non si capiva l’ironia che ne faceva Lacan.
«Socialmente la psicoanalisi ha una consistenza diversa dagli altri discorsi. È un legame a due. Proprio per questo si trova al posto della mancanza di rapporto sessuale. Il che non basta certo a farne un sintomo sociale, dato che un rapporto sessuale manca in tutte le forme di società». Il non c’è rapporto sessuale vale per tutti i discorsi, quindi non è lì la questione, non è lì che la differenzia dal marxismo. «È legato alla verità che fa la struttura di qualsiasi discorso. D’altronde proprio per questo non c’è una vera e propria società basata sul discorso analitico».
Altrove Lacan dice qual è la condizione per cui la psicoanalisi lacaniana può evitare di diventare una religione. È la questione che gli era stata posta il giorno prima, nel suo intervento a Piazza Campitelli, intervista pubblicata su Il trionfo della religione. Quando il discorso dell’analista mette questo vuoto nel posto del semblant, ricorda Lacan, l’analista lo deve incarnare. Quest’incarnazione è espressa in modo molto netto in Television e ripetuta nel testo, pronunciato a Nizza, Il fenomeno lacaniano. Ricorrendo al nodo borromeo, la differenza con il proletario è che Marx situa il proletario collegato con il godimento fallico, cioè il “per tutti”, mentre Lacan situa l’analista sul pas tout, e lo gioca sul “sono in due”. Nel discorso, Marx, situa il proletario nella posizione del discorso dell’analista, cioè lo mette in una situazione per cui tutto il discorso gira attorno al proletario. Però lo santifica. E poi dice: è il per tutti. Da quel momento diventa una religione. Invece, l’analista è nella posizione di oggetto a, che rimane però un pas tout, e ciò evita che il discorso analitico diventi una religione. Tuttavia, vi è un aspetto negativo: non può fare legame sociale. «D’altronde proprio per questo non c’è una vera e propria società fondata sul discorso analitico. C’è una scuola, che per l’appunto non si definisce come società. Si definisce per il fatto che (io) vi insegno qualcosa». Qui indica la posizione che Lacan ha preso rispetto a Freud: “io insegno qualcosa”. Rispetto all’organizzazione che lui ha creato, che ha chiamato École Freudienne de Paris, si è situato come l’oggetto a. Freud si situava nella posizione del padre morto, tant’è che non è mai stato presidente dell’Internazionale. Lacan si situa in quella posizione, nello stesso tempo sapeva che essere in quella posizione voleva dire essere nella posizione di essere scartato... questo lascia da pensare per il nostro futuro.

Lacan, nel suo insegnamento, opera uno spostamento dal linguaggio a lalingua. Mantiene la posizione dell’inconscio strutturato come un linguaggio, allo stesso tempo il linguaggio non è più quello dell’ordine dei linguisti. Cos’è che Lacan intende per lalangue? Anche nel testo c’è uno scivolamento, a volte lalangue lo scrive con una sola parola, in altre la langue. Nel testo si notano delle imperfezioni, addirittura un lapsus che fa morire il povero Lévi-Strauss, mentre si trattava di Merleau-Ponty (Cavasola l’ha corretto, ma lui non disse “Merleau-Ponty”, disse che era morto Lévi-Strauss). Imprecisioni che sono uno dei problemi nella traduzione di Lacan, perché non si sa se si tratta di un errore, se è un gioco di parole, oppure se fatto apposta o se non è fatto apposta.
Pagina 23: «L’interpretazione, ho formulato, non è interpretazione di senso, ma gioco sull’equivoco». L’idea di Lacan è che se si dà senso non si fa altro che innaffiare il prato del sintomo, e così il prato cresce. L’analista taglia l’erba, e non la fa crescere. È la differenza rispetto ai post-freudiani, loro fan venir su l’erba, noi la tagliamo. «Proprio per questo ho messo l’accento sul significante nella lingua. L’ho indicato con l’istanza della lettera, per farmi intendere dal vostro po’ di stoicismo. Ne risulta, ho aggiunto da allora senza nessun effetto, che l’interpretazione si opera partendo da lalingua, il che non impedisce che l’inconscio sia strutturato come un linguaggio», fa una differenza netta tra lalingua e il linguaggio, «uno di quei linguaggi di cui è appunto compito dei linguisti far credere che lalingua sia animata (...). Lalingua è quel che permette di considerare che il voto (voeu), l’augurio, non a caso è anche il vuole (veut) (...)».
La lingua ha delle particolarità proprie. Ogni lingua ha una genialità. Lacan sottolinea la genialità francese e indica che non è la genialità di tutte le lingue. Indicherà che c’è una genialità nel giapponese che per lui è estranea, però se ne farà qualcosa. Dove la troviamo questa genialità della lingua italiana? È chiaro che c’è il gioco dell’equivoco, noi a volte abbiamo delle facilitazioni sull’equivoco, soprattutto sul fatto che chi ci parla ci dà del Lei. Il “lei” si applica a tanti oggetti, dalla madre all’amante, ecc… C’è uno scivolamento forte, facile da percepire, da intuire. Un’altra cosa che ho notato, che a mio parere è più tipica della lingua italiana, è l’equivoco di tipo logico più che verbale: quando una persona sta dicendo una cosa e il suo rovescio contemporaneamente, c’è qualcosa che logicamente non sta in piedi, quel che è detto non corrisponde con quello che segue; generalmente non è una parola, è più nell’ordine di una frase nella quale una contraddizione è detta immediatamente dopo. In francese è facile il lapsus sulla parola sola. Una di Lacan è quando dice: le sujet parle au lieu de l’Autre. Come tradurlo? Correttamente è “in luogo”, che vuol dire “in vece” dell’Altro. Nel dizionario au lieu non ha mai il senso “nel luogo” dell’Altro. Lo scivolamento è tra “in luogo dell’Altro” o “dans le lieu de l’Autre”. Di solito, quando parliamo tra di noi, si sente piuttosto “nel luogo dell’Altro”. Il Littré lo esclude, però il fatto che lo escluda non vuol assolutamente dir niente per Lacan. C’è uno scivolamento tra “in luogo dell’Altro” e “nel luogo dell’Altro”. Non è “al posto dell’Altro”, le lieu e la place non sono uguali per Lacan. Questo genere di cose sono più difficili da tradurre del gioco di parole, perché il gioco di parole lo s’inventa. Ne L’Étourdit si trovano falloir e faillir, in francese sono differenti, in italiano si congiungono, come del resto in latino. Ne La terza ne indica alcuni: «Lalingua è quel che permette di considerare che il voto (voeu), l’augurio, non a caso è anche il vuole (veut) di volere, terza persona dell’indicativo; e non è neanche un caso se il no (non) negante è il nome (nom) nominante; e che di loro (d’eux) (“di” prima del “loro” che designa quelli di cui si parla) sia fatto nello stesso modo della cifra due (deux) non è un puro caso, e non è nemmeno arbitrario, come dice Saussure. Occorre considerare in che modo il deposito, il sedimento, la petrificazione da parte di un gruppo della propria esperienza inconscia vi lasci il segno». Qui vi è la risposta all’inconscio junghiano. Lacan non considera che ci sia un inconscio collettivo, considera che in un gruppo, in un popolo, ci sia una sedimentazione che viene poi utilizzata nel gioco dell’inconscio delle persone, ma che non è identica. Lacan arriva a dire che la lingua è dell’ordine di una lingua che non può dirsi vivente anche se in uso: è una sedimentazione. Semmai, arriva addirittura a dire che essa veicola la morte del segno.
«Il fatto che l’inconscio sia strutturato come un linguaggio non impedisce alla lingua di giocare contro il suo godere, giacché essa si è fatta di questo godere stesso. Quel soggetto supposto sapere che è l’analista nel transfert, non è supposto a torto se sa in cosa consiste l’inconscio: un sapere che si articola da lalingua, dove il corpo che parla è annodato solo dal reale di cui “si gode”». È la definizione dei tre godimenti nel nodo borromeo. Definizione da interrogare prendendo, ad esempio, Lituraterre e la prefazione agli Scritti in giapponese. Come è che avviene in un altro gruppo dove la sedimentazione non è esattamente uguale? Lacan indica che c’è una particolarità de lalangue, che è specifica. Attenzione, c’è tutta una teoria secondo cui l’inconscio, per esempio, italiano non è l’inconscio spagnolo. Non è di quest’ordine ciò di cui Lacan parla. Piuttosto, Lacan parla di sedimentazioni che hanno degli effetti per il soggetto che le utilizza. In Giappone arriva a dire che la distanza è tale che lui non riesce a capire a cosa servirebbe che un giapponese leggesse gli Scritti.
Lacan porta un esempio di come funziona lalingua nelle virtù teologali, a pagina 26: «Giacché siamo a Roma, cercherò di darvi un’idea di cosa ne sia di questa unità del significante da ricercare. Come sapete, ci sono le famose tre virtù dette appunto teologali. Qui le vediamo presentarsi sui muri proprio ovunque sotto forma di donne formose. Il minimo che si possa dire è che trattandole come sintomi non si esagera poi tanto, giacché definire il sintomo, come io l’ho fatto partendo dal reale, vuol dire che le donne, il reale, lo esprimono molto bene e infatti, insisto, le donne sono non-tutte. A questo punto, se designassi la fede, la speranza e la carità come la foire, laisse-père-ogne, (“lasciate ogni speranza” è un metamorfema come un altro, visto che prima mi avete fatto passare ourdrome) se le denominassi così e finissi con la tipica cilecca, cioè l’archiraté», in francese vuol dire “far cilecca a letto”, o una cosa che è archiraté significa che andata male, che non funziona, «mi sembrerebbe di avere un’incidenza più effettiva sul sintomo di queste tre donne». Con esempi gioca sull’utilizzo de lalangue. Il giorno prima Lacan aveva fatto un gioco sulla foire: Lacan diceva la foire, il giornalista diceva “no sto parlando della foi”; la foire in francese non vuol solamente dire “la fiera” ma anche “la cacarella”.
Tutto questo serve, esattamente, per l’interpretazione.
Segue un passaggio in cui Lacan fa riferimento alle tre questioni di Kant, che Miller riporta in Televisione [Rif.: in Altri Scritti, pag. 529 e sg.]: che cosa posso sperare? che cosa posso fare? che cosa posso sapere? Questioni cui Miller fa riferimento esattamente alla persona che le ha pensate, un domenicano del XIII secolo, e che servivano per la formazione dei domenicani, che Kant riprenderà. Lacan risponde a Miller quasi interrogando la singolarità di Miller, parlando a lui direttamente, non a un voi generale.
«Ho fatto questo esempio per non arenarmi in ciò che vi avevo dato all’inizio come gioco, per esempio di ciò che occorre per trattare un sintomo, quando ho detto che l’interpretazione, per non essere qualcosa che alimenta il sintomo di senso, deve mirare a quel che c’è di essenziale nel gioco di parole» al modo di Marcel Duchamp. «Quello slittamento della fede (foi), della speranza, e della carità verso la foire (...) è uno dei miei sogni».

Trascrizione: Sofia Gessi
Redazione: Giuseppe Perfetto

martedì 17 novembre 2015

Seminario del 13 giugno 2015 Docente invitato: Dominique Holvoet

LA TERZA

«La Terza ritorna sempre alla prima», dice Lacan. “La prima” è un discorso, è il Discorso di Roma. La Terza è una lettura. Nel testo, Lacan, insiste dicendo che questa Terza lui la legge e cerca di portarci ad un certo livello, un livello che sia al di qua di tutti i sensi possibili del discorso… motivo per cui, giocando sul francese, dice ourdrome. Fa ­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­lavorare il linguaggio contro il linguaggio per far emergere un’altra dimensione, quella della lettera, dimensione che permetterebbe la scrittura del discorso, o un discorso che sarebbe del reale. Un desiderio di Lacan era produrre un discorso che non sarebbe di parvenza. Dunque, un discorso che produce un’effrazione, per questo quando leggete il testo de La Terza vi prende per il bavero, non accompagna il lettore. Occorre che qualcosa si gratti via dal linguaggio per produrre lalangue come resto.
Jacques-Alain Miller ha scritto Nota di ago e filo, che accompagna il seminario XXIII di Lacan, dove afferma che quel che si apre nel novembre del 1974 costituisce un ritorno sul proprio tentativo, una messa in questione della psicoanalisi di una profondità senza pari; ciò è ampiamente non percepito per via della cura che Lacan ha messo nel sottrarre all’ascoltatore la portata del suo discorso, un discorso che porta in sé delle virtualità esplosive. Miller conclude dicendo che non ci si può impedire di pensare che l’ultimo insegnamento di Lacan sia dello stesso registro di quel che le scuole antiche riservavano all’insegnamento esoterico. Nell’insieme dell’insegnamento di Lacan c’è la preoccupazione di presentare le cose in un modo che non siano immediatamente accessibili, che non si capiscano troppo in fretta: quando si capisce in fretta si capisce male. In La Terza il tentativo di mascherare quello che vuole dire è moltiplicato, ed è di una particolare densità.
La Terza e l’ultima parte dell’insegnamento di Lacan sono qualcosa che stiamo scoprendo ora, man mano. Non penso che si possa dire di essere nella pratica già immersi in quest’ultimo insegnamento di Lacan.
La Terza non era una conferenza che si rivolgeva ad un grande pubblico, come invece fu una contemporanea intervista rilasciata ai giornalisti. La Terza si rivolge ai membri della sua Scuola, si tratta dell’intervento al VII Congresso di quella che al tempo si chiamava l’École Freudienne de Paris. È “la terza” volta che Lacan prende parola a Roma, vent’anni dopo aver pronunciato il primo discorso.
Nel 2001, per France Culture, in occasione del centenario della nascita di Lacan, Miller ha scritto un breve testo. Introducendo Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi Miller fa valere due idee forti. La prima è che l’inconscio è strutturato come un linguaggio. Ciascuno riceve dall’Altro (che è un partner intimo, sconosciuto, senza volto) un discorso che lo agita in seno alla propria identità. È una messa in causa del cogito: il soggetto che pensa non può più dire “penso dunque sono” perché è il discorso dell’Altro, di questo partner intimo che si sviluppa nei sogni e nei sintomi. La seconda idea è che l’azione psicoanalitica riposa sulla parola: la parola dell’analizzante che domanda e che evoca nel presente senza preoccuparsi dell’esattezza del proprio dire, e la parola dell’analista che dev’essere rara, che scandisce e interpreta. Miller nota l’entusiasmo che c’è per Lacan: «Nel 1953 mette la parola, il linguaggio, al cuore della psicoanalisi. Definire a partire da questo la dimensione del soggetto è un fulmine a ciel sereno. L’accoglienza fatta a questo testo è entusiastica». È l’epoca in cui quando si parlava di psicoanalisi si poteva fare una conferenza in un teatro e avere un pubblico di trecento persone. «E Lacan è raggiante di ottimismo. Sente che si può dar fiato ad una teoria che è rimasta un po’ stagnante dopo la morte di Freud, dare di nuovo respiro a una pratica i cui effetti cominciano a smorzarsi».
Il secondo intervento di Lacan a Roma, del 1967, ha un tono inverso, il titolo lo dice a sufficienza: La psicoanalisi, ragioni di uno scacco. Lacan sente di essere solo. Sente che gli psicoanalisti vogliono rientrare nei ranghi, abbandonare la dimensione sovversiva da lui promossa e, secondo il principio dell’omeostasi, ritrovare il comfort della routine. Lacan fa la cupa previsione che gli psicoanalisti si arrenderanno di fronte ai diversi vicoli ciechi della civiltà. L’anno seguente sarà il 1968, l’anno della rivolta dei giovani e Miller individua in Lacan delle ragioni di speranza in questa rivolta, ciò lo incoraggerà a perseverare.
Per la terza volta a Roma, citando Miller: «L’allegro vegliardo, che ormai ha 73 anni, porta qualcosa di nuovo, sospirando. Lo sviluppo dell’argomentazione è difficile per gli specialisti stessi. Non si tratta di capire tutto, è impossibile, ma non si tratta neppure di rinunciare a comprendere. Bisogna fare uno sforzo per accogliere un pensiero originale, sorprendente, unico, che ha segnato il XX secolo, pur restando ancora ampiamente da scoprire e da decifrare».
Dopo il 2001, quando cioè Miller ha scritto questo testo, si è iniziato a scoprire e a decifrare il testo de La Terza, e la pubblicazione del seminario XXIII ha aiutato a lavorare su di esso.
Se il primo discorso di Lacan a Roma mette al centro della psicoanalisi un dire che verte sulla parola e sul linguaggio, La Terza è una lettura che ha di mira la lalangue e il corpo a partire da una scrittura, la scrittura del nodo borromeo.
Il nodo compare nell’insegnamento di Lacan nella lezione del 9 febbraio del 1972, ed è a proposito dell’amore che si presenta. Lacan commenta una frase che presenta come la vera lettera d’amore. Scrive “amur”, “amore” senza la “o”, giocando sulla risonanza tra “amore” e “muro” per far apparire la sonorità del muro in questa parola: nell’amore c’è sempre un problema di muro… come sperimentiamo tutti ogni giorno. Nella frase ci sono tre termini che girano intorno a un buco. La frase è: “Ti domando di rifiutare quel che ti offro perché non è questo”. Ci sono la domanda, il rifiuto, l’offerta. Il buco è reso in immagine dall’interiezione “non è questo”. L’amore presuppone la simultaneità dei tre termini per fissare qualcosa che altrimenti sarebbe solo finzione. Per Lacan tale triplicità attorno ad un buco è quel che fonda il discorso dell’analizzante, e aggiunge che nell’analisi trascurare questa domanda di rifiuto di quello che è offerto rende la domanda soltanto più pregnante e insistente. Nel discorso dell’analizzante quel che si domanda è di riconoscere che quel che si domanda non è questo. Il discorso dell’analizzante gira intorno al “non è questo”. A partire da tali considerazioni, il nodo fa la sua apparizione nelle pagine 90-91 del seminario XIX: «Proprio perché la questione che si pone per noi non è di sapere quello che ne è del “non è questo” che sarebbe in gioco in ciascuno di questi livelli verbali, la questione è che noi dobbiamo accorgerci  che occorre snodare ciascuno di questi verbi dal proprio nodo, snodarli dagli altri due ed è così che possiamo trovare quello che ne è di questo effetto di senso che chiamo oggetto a». Non si tratta di comprendere bensì di estrarre. Lacan sottolinea che i tre elementi vanno insieme, non ci possono essere offerta e domanda senza il rifiuto, la stessa cosa vale per le altre combinazioni. La posta in gioco nel nodo è quest’oggetto di desiderio non condivisibile, quello che chiama “non è questo”, l’oggetto a. Motivo per cui, due pagine più avanti, sottolinea che la radice dell’oggetto a è che non riguarda mai due soltanto, ce ne vogliono tre perché nell’offerta d’amore ci sia un muro. C’è un impossibile, un insuperabile che dev’essere un dono. Lacan prosegue, a pagina 91: «Mi interrogavo, ieri sera, sul modo in cui vi avrei presentato quest’oggi la mia geometria tetradica. Mi è successa una cosa strana cenando con un’incantevole persona che segue i corsi di monsieur Guilbaud, il matematico. Mi è arrivato, come un anello al dito [locuzione francese accostabile all’italiano “come cacio sui maccheroni”], qualcosa che voglio mostrarvi. Qualcosa che è niente meno che lo stemma araldico dei Borromeo». Questa breve sequenza dà un’idea di come lavora Lacan: prende tutto quello che c’è, anche qualora lì in modo contingente, e l’evento accidentale può produrre la scoperta… potremmo dire che Lacan lavora per serendipity. È a partire dal dono d’amore, impossibile, di quel che non si può scrivere del rapporto sessuale, che Lacan scopre, o piuttosto capita, sulla scrittura del nodo borromeo. Il nodo apparirà ancora nel capitolo 10 del seminario Ancora, ma sarà soprattutto nel testo de La Terza che è messo al centro. Questo testo introduce gli sviluppi che si troveranno nel seminario RSI, che Lacan pronuncia nello stesso anno, 1974-75, sviluppi che culmineranno nel seminario Il Sinthomo.
La formula con cui inizia La Terza è: Je pense, donc Se jouit. Una variazione rispetto all’apoftegma di Cartesio. Nella conferenza di Lacan, il punto di partenza è il corpo, tutto il corpo. Non è soltanto il corpo speculare in due dimensioni, ma il corpo definito in quanto “si gode”. Con la formula “il corpo che si gode” Lacan mostra l’impasse che il godimento fa per il soggetto che abita questo corpo: in fondo, il corpo si gode da solo senza passare per la soggettività. Lacan fa l’esempio del gatto che fa le fusa: «le fusa del gatto sembrano essere di tutto il corpo», e sembra sottintendere che è a partire da tutto il corpo che gode facendo le fusa. Notiamo che per l’essere parlante si tratta di un godimento speciale, non è soltanto il godimento delle fusa del gatto, è un godimento che è reimpastato ne lalangue, un godimento che si deposita ne lalangue mortificandola, cosa che fa sì che lalangue «si presenti come un legno morto». Mi sembra che si possa definire lalangue come linguaggio lavorato dal linguaggio, che dà un resto che è fatto di questo godimento del linguaggio, godimento del linguaggio che veicola la morte del segno.
Lacan sovverte il cogito cartesiano e propone la formula “Penso dunque si gode” al posto di “Penso dunque sono”. La certezza del “Io sono” è rigettata, nel senso della preclusione, cioè ritorna nel reale, nel reale del corpo. Quel che è rigettato dal “sono” fa ritorno nel reale del corpo dove c’è qualcosa che “si gode” indipendentemente dal soggetto che abita questo corpo. È qualcosa che si gode ma che mi è completamente estraneo, che occorre che io situi, che io attribuisca. Per cogliere il valore del cogito cartesiano bisogna fare un passo indietro e sottolineare che prima che il cogito sia posto, quindi prima di Cartesio, il mondo non è un mondo rappresentato da e per il soggetto, ma è un mondo creato da e per il creatore. È una difficoltà particolare pensare il mondo quando era pensato in un ordine d’idee completamente diverso. È importante cogliere come il punto di svolta che situa il cogito cartesiano cambia, come una vertigine della rappresentazione, il modo in cui rappresentiamo il mondo. Perché possa affiorare il cogito occorre mettere in dubbio ogni rappresentazione. Nell’ultimo corso del 2011, Jacques-Alain Miller parla di questo dubbio come di un terrore. Non è come il dubbio ossessivo, “Ci sono o non ci sono davvero”, ma Miller dice, a proposito della nascita del soggetto del cogito, «è il terrore che esercita al soggetto che emerge come sola istanza che resiste alla sospensione di ogni rappresentazione». Il soggetto è terrorizzato all’idea di essere il solo a tenersi in piedi in un mondo dove ogni rappresentazione è messa fuori gioco, svuotata di reale. Tutto quello che è la rappresentazione che ci si fa del mondo è solo ombre e riflessi, quindi la vita è un sogno, e tutto si riduce a sogno o incubo. Ne La Terza, Lacan dice del pensiero: «sono soltanto parole che introducono nel corpo rappresentazioni imbecilli». È una formula che fa ben risuonare il carattere fittizio della rappresentazione. Attraverso l’operazione del cogito il mondo è convertito, trasformato in rappresentazione, ma allo stesso tempo è rifiutato, squalificato come finzione linguistica. La questione che si pone è come fare congiuntura fra rappresentazione, tra queste finzioni del dire, e il reale. Il cogito da solo non può garantire tale congiunzione fra la rappresentazione con il suo carattere fittizio e il reale, perché, in fondo, il cogito è una funzione istantanea, effimera, e dipende dal discordo nel quale emerge. La soluzione di Cartesio sarà quella di porre Dio come istanza che opera questa congiunzione, ed è a Dio che sarà attribuita la funzione di operare il passaggio dalla rappresentazione al reale. Dio è un Altro maiuscolo, non è un Altro supposto sapere bensì è un Altro supposto dire la verità. A proposito di Dio, si ritrova ne La Terza un tono ironico: Dio, quello che sarebbe il Verbo, «Cartesio non si sbaglia. Dice: Dio è il dire. Vede bene che Dieure [Lacan forma un neologismo condensando la parola “Dio/Dieu” e “dire/dire”] è quello che fa essere la verità». Basta dire per creare degli esseri, che in fondo sono solo esseri di finzione. Basta dire per dire la verità, perché la verità è fondamentalmente mentitrice per quanto riguarda il reale, è la formula che dice che la verità ha struttura di finzione. È come se Lacan dicesse a proposito del suo primo discorso a Roma: “parole, parole”, ed è così che questo primo discorso ritorna ne La Terza nella forma del “disco che gira”: è quel che resta dopo aver parlato e che ritorna allo stesso posto. È la prima definizione del Reale in Lacan. Il Reale è quello che ritorna sempre allo stesso posto. Il reale esiste nell’esperienza analitica come escluso, ed è per questo che Lacan lo scrive in due parole spezzando ex-siste. Il reale è escluso a favore della dialettica, che invece permette degli spostamenti, quindi “parole, parole”. Nel suo primo insegnamento, Lacan da queste “parole, parole” si aspetta degli effetti reali, ma, fondamentalmente, l’associazione libera lascia fuori il reale perché esclude elementi restii al cambiamento. Quel che ci si aspetta dall’associazione libera è che cambi qualcosa. L’applicazione dell’associazione libera, all’inizio della cura, è un modo di far dimenticare all’analizzante che nell’analisi si tratta solo di parole e non di reale.  Proprio di questo reale ci si prende gioco ne La Terza. Ci si prende gioco nel senso dell’ironia di questo reale che torna sempre allo stesso posto. Le speranze riposte nella dialettica cadono di fronte al reale, che è fondamentalmente la dimensione del girare a vuoto e che fa sì che le parole siano impregnate di stupidità.
Ma in questa conferenza Lacan aggiunge qualcosa in più. In fondo, si tratta solo di girare a vuoto, di fare le fusa, vale a dire che parlando si gode: qui reintroduce il corpo al di là del suo statuto immaginario. Lacan cerca di uscire dal discorso corrente, cosa che scriveva già l’anno precedente con la parola “disco” giocando sull’omofonia tra il “discorso” corrente ed il “disco” che gira. È fedele a quel che cerca di far capire nel testo, cioè che nel discorso corrente c’è un disco e questo è appeso. Non è una battuta di spirito. Nel seminario Ancora dichiara: «Se non ci fosse il discorso analitico continuereste a parlare come degli stornelli, continuereste a far girare il disco, e questo disco gira perché non c’è rapporto sessuale che si possa scrivere». Il discorso corrente gira intorno al punto “non è questo”. All’inizio c’è il non-rapporto che dà un indice di reale. Lacan dice che Cartesio non esce da questo girar a vuoto, è prigioniero di questo suo discorso, «dell’inserimento nel discorso in cui è nato», il discorso del padrone. Lacan cerca di costituire un altro sapere, e dice che «è uso che all’epoca di Cartesio» il sapere si costituisca a partire dal discorso del padrone... come se oggi le cose fossero differenti, in fondo anche oggi c’è lo stesso uso: il sapere ancora si costituisce a partire dal discorso del padrone. Mi sembra che Lacan sia un po’ meno certo per quello che concerne la nostra epoca perché, una pagina più avanti, evoca l’idea che non si sente in grado di prevedere «il vento che gonfia le vele alla nostra epoca», che non vi sarebbe più un discorso del padrone che costituisce il sapere come tale. È da un altro discorso, il discorso dell’analista, che si ha la possibilità di costituire un altro sapere. I termini simbolico, immaginario e reale hanno senso solo attraverso e per questo discorso. Se il reale è quello che torna sempre allo stesso posto è proprio verso questo posto che va a dirigersi l’attenzione dell’analista, e man mano anche dell’analizzante. Accade che il reale che ritorna mette a nudo questo posto della parvenza, la scopre, toglie il velo. È esattamente il posto che Lacan assegna all’analista, posto che situa all’intersezione dei tre registri, ove scrive a minuscola. Lacan invita a mostrare la parvenza a essere l’oggetto causa del desiderio. Detto altrimenti, Lacan propone che l’analista si costituisca come punto d’attrazione del discorso analizzante, e questo lo fa occupando la parvenza dell’oggetto causa. Ciò implica per l’analista lasciare l’oggetto, Lacan dice «di offrirlo come causa del proprio desiderio al vostro analizzante». Dunque, il desiderio è il desiderio dell’analizzante e non dell’analista. Offrire l’oggetto del desiderio dell’analizzante all’analizzante. Ma questo presuppone da parte dell’analista di lasciare qualcosa. È un’indicazione preziosa… è quindi inutile fare il brillante, strafare, pavoneggiarsi. Semplicemente si tratta di prendere atto che non c’è un solo discorso che non sia animato dalla parvenza. Il discorso analitico non sfugge alla dimensione che ciò che anima il discorso è la parvenza, però con il fatto che nel discorso analitico l’analista si fa lo zimbello, l’esca, della parvenza. Se c’è posizione particolare dell’analista come zimbello della parvenza, i tre registri possono operare in modo efficace nella parola e attraverso la parola. Lacan cerca di porre in evidenza che l’analista parla da un certo posto, posto che implica che abbia lui stesso lasciato qualcosa.
Lacan sposta i concetti rispetto a quello che era il suo insegnamento precedente, è quel che fa nel corso di tutto il suo insegnamento, ed è perché abbiamo la lettura di Miller che possiamo cogliere tali gli spostamenti. Lacan realizza questi spostamenti con molta sottigliezza, non va mai a sottolineare dei punti di rottura ma presenta il movimento del suo insegnamento come una trasformazione topologica senza discontinuità, per esempio con la logica di gomma che presenta a proposito del piccolo Hans. Alla fine di Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio dice che «è inaccettabile che ci si imputi di avere di mira una riduzione puramente dialettica dell’essere», rispetto al primo insegnamento c’è qualcosa che conduce proprio a ciò: con La Terza siamo alla svolta già introdotta dal seminario XX, e situata per l’esattezza da Miller nell’ottava lezione, dove Lacan dice che «rinuncia all’ontologia a favore del reale». La frase citata degli Scritti è del ’64, qui siamo nel ‘69. La rinuncia all’ontologia per un’ontica del godimento è il movimento dell’ultimo insegnamento di Lacan. C’è un passaggio dall’ontologia all’ontica, dalla dimensione dell’essere a quella dell’esistenza, e questo passaggio costituisce la trama di fondo che Miller ha dato all’ultimo Corso dell’orientamento lacaniano, nel 2011, che inizialmente aveva chiamato “Opere di Lacan” per poi rinominarlo “L’essere e l’Uno”.
Per leggere La Terza è utile mettere le cose come le pone Miller nella sesta lezione del suo Corso, lezione che riguarda il corpo, il significante e l’oggetto a. Questa lezione comincia con quella che potremmo dire la confessione da parte di Miller: dichiara che va a regolare i conti con Lacan, conti che aveva in sospeso con lui da almeno vent’anni. Si tratta del rifiuto da parte di Miller, già al tempo del seminario I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, di un’ontologia di Lacan. Miller dimostra che Lacan nel suo primo insegnamento ha sovrapposto l’inconscio e l’Es, riducendo l’Es nell’inconscio. Nell’insegnamento di Lacan è il momento in cui tutto può essere creato dal simbolico. Miller sostiene come negli Scritti ci sia «l’atmosfera di un mondo senza reale», è il mondo del significante retorico. In questa prospettiva anche la pulsione è ridotta ad essere una parola, ed è così che possiamo capire la formula con cui scrive la pulsione: $◊D [S barrato losanga di D]. Nella formula c’è qualcosa della domanda che spinge. Nella sua prima fase di insegnamento, la pulsione è una domanda, domanda silenziosa ma che trova espressione nel linguaggio. Tuttavia nel testo La scienza e la verità, alla fine degli Scritti, Lacan rifiuta la dimensione del ça parle della pulsione e rimanda quest’espressione piuttosto dal lato della magia, senza con ciò disprezzare la magia… è una vera questione che si pone: che ci sia un’effettività nella magia. S’interroga sull’efficacia dello sciamano, e questo entra in risonanza quando guardiamo il percorso nei seguenti vent’anni. Egli indica che l’effettività dello sciamano è relativa alla messa in gioco del suo corpo e che offre al soggetto un punto di riferimento sul proprio corpo. Mi sembra che ci sia una prossimità fra la formula relativa allo sciamano in La scienza e la verità con l’espressione che si trova ne La Terza dove Lacan invita ad offrire all’analizzante l’oggetto a di cui l’analista si libera, per questo ho parlato di amputazione per indicare che è qualcosa che ha a che fare con il corpo. Restando sugli Scritti: Lacan può formulare che questo testo non ha niente a che vedere con la psicoanalisi. Miller nota che Lacan può dire che non ha niente a che fare con la psicoanalisi perché a quell’epoca il soggetto della psicoanalisi non ha corpo. In tutto il primo movimento dell’insegnamento di Lacan il soggetto è un soggetto senza corpo, allo stesso modo in cui chiama in gioco il soggetto della scienza. In quel momento, l’efficacia della psicoanalisi è situata da Lacan a partire da un’altra causa materiale, una causa materiale diversa dal corpo che è il significante. Ma già appare alla fine degli Scritti, in La scienza e la verità, un primo spostamento. Il significante di cui parla in La scienza e la verità è un significante nuovo rispetto a quello di Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi. Non è più il significante retorico de L’istanza della lettera. Il significante retorico è quello che distingue il significante dal significato, ed è questo rapporto che permette di creare degli effetti di senso, ed è da questa divisione tra significante e significato che Lacan deduce degli effetti di metafora e metonimia, la metafora come aggiunta di senso che determina il sintomo come portatore di verità (il sintomo è una metafora), mentre nella metonimia il senso corre sotto il significante e determina il desiderio. Nel primo movimento dell’insegnamento di Lacan, dissolvere il sintomo è restituire il soggetto a questa corsa del desiderio, la metonimia significante del desiderio. Ma Miller nota che alla fine degli Scritti lo statuto del significante è nuovo, è separato dal senso. Il significante non è più quello connesso con un senso, non è più nel rapporto significante-significato, ma è solo correlato con un altro significante. La coppia S1 e S2 avvicina il significante ad un oggetto matematico.
Nella spostamento dal primo al secondo insegnamento, lungo la traiettoria che ci porta a La Terza, c’è qualcosa che ci avvicina al reale. L’S1 che si trova ne La Terza non è il significante retorico, non dipende dal rapporto tra significante e significato, ma non è neppure il significante matematico. Il significante ne La Terza ha ancora un altro statuto, che è preparato dal movimento precedente. Ne La Terza è davvero un S1 da solo. S1 staccato da ogni effetto di senso, intendo cioè staccato da S2. Un significante da solo, staccato dall’articolazione che faceva sgorgare il senso, staccato dalla produzione della catena significante che «vomitava» il senso e gli effetti di verità. Dice «vomitare» perché tutto questo è solo bla bla. Quel che cerca di cogliere è il significante in quanto vicino al reale, perciò Lacan usa la formula: l’S1 da solo è «qualsiasi cosa che si scriva senza produrre alcun effetto di senso».
Dovremmo sviluppare cosa significa un S1 che si produce soltanto a condizione di farlo senza produrre alcun effetto di senso. In tutto questo, il lato saliente è che Freud ha scoperto l’inconscio a partire dalle isteriche, invece Lacan nella sua esperienza è partito dagli psicotici adulti, che hanno poi chiarito come effetto di ritorno le nevrosi. Penso che si possa dire che la clinica che corrisponde a La Terza sia la clinica dell’autismo. La dimensione dell’S1 come significante da solo la possiamo cogliere nella clinica dell’autismo. Scrivere che S1 è qualsiasi cosa che si scrive solo a condizione di farlo senza produrre alcun effetto di senso lo si afferra a partire dalle psicosi infantili e dall’autismo.
Qui l’inconscio e l’Es non sono più sovrapposti, si dividono le acque: l’inconscio da una parte e l’Es dall’altra. E se nella versione che troviamo alla fine degli Scritti il significante si raccorda solo ad un altro significante, allora si pone la questione di sapere come l’inconscio può operare sull’Es o, più precisamente, come il linguaggio può operare sul godimento. Come queste due “entità”, non più sovrapposte, ma diverse, antinomiche, possono comunicare, come possono parlarsi. Tra le due ci vuole una mediazione. Nella seconda parte dell’insegnamento di Lacan, l’oggetto a è quello che funge da mediatore. L’oggetto a garantisce la mediazione tra l’inconscio e il godimento. È all’oggetto a che è rimessa la funzione di garantire l’effetto di senso. Ma che sia l’oggetto a a garantire l’effetto di senso è una formula strana rispetto a tutto quello che abbiamo potuto dire sul primo insegnamento di Lacan. È un modo d’indurre progressivamente l’idea che il significante non ha solo effetti di senso ma di godimento. Quindi, in primo luogo il significante è separato dai propri effetti di senso, in secondo luogo l’oggetto a è ben instaurato come mediatore tra il linguaggio ed il godimento, ed è un modo di riconoscere che il significante ha anche effetti di godimento, infine questo movimento dà un nuovo statuto al corpo. Il corpo immaginario, il corpo dello stadio dello specchio, non basta a sostenere gli effetti di godimento perché il godimento non si può più solo concepirlo sul registro narcisistico, legato all’attrazione esercitata dall’immagine. È tutto il corpo che diviene supporto del godimento e non più soltanto all’immagine del corpo. Lo statuto dell’oggetto a è garantire la mediazione tra linguaggio e godimento: Lacan chiama oggetto a quella parte di godimento che è afferrata, determinata, dal significante. L’oggetto a, un po’ come Giano, ha due volti: da una parte prendete il godimento, dall’altra prendete il significante.
Vi sono delle conseguenze sulla concezione del sintomo. Il sintomo non è più concepito come effetto di senso, come portatore di una verità, non è più pensato come una metafora. Piuttosto, il sintomo è visto come un effetto di corpo. Con questa separazione fra l’inconscio e l’Es resta il problema di come cogliere il sintomo attraverso il senso… e Miller si domanda se bisogna uscire dal campo del linguaggio, se allora non si tratti di arrivare a delle pratiche igieniste o ginniche poiché il sintomo è effettivamente nel corpo, e in effetti vediamo che c’è un gran sviluppo di tali pratiche che toccano il corpo. Ma Lacan non ha mai rinunciato a trovare l’efficacia della psicoanalisi a partire dal linguaggio, dunque dal significante. Significante che non è più il significante retorico ma che è il significante matematico. E sviluppa l’efficacia della psicoanalisi a partire dalla logica per risolvere la questione di come cogliere il godimento a partire dal significante, quindi la sua risposta è dire «la si può cogliere attraverso la logica». Ma si vede un limite di questa elaborazione: con La Terza ci si trova in un altro paradigma, che non ha più appoggio nella logica pura. È nel seminario Ancora che abbozza questo paradigma, laddove Lacan vuole «riconoscere la ragione dell’essere nella significanza nel godimento». Formula su cui si può meditare. E aggiunge: «godimento che - ricordiamo - è il godimento del corpo». La ragione dell’essere nella significanza la troviamo nel godimento del corpo. Lavorando il seminario Il Sinthomo si coglie meglio a cosa si raccordi tutto questo. Si può ribattere che ne La Terza Lacan evoca ancora la logica a partire dall’oggetto a. Ma Lacan dice: «Non immaginatevi che abbia avuto io l’idea dell’oggetto a. Io ho scritto oggetto a. Non è un prodotto del pensiero, io l’ho scritto. È una lettera. È una cosa completamente diversa. Questo lo rende affine alla logica; quindi vuol dire che lo rende operante nel reale a titolo di un oggetto di cui non c’è l’idea e bisogna aggiungere che era fino ad ora un buco in ogni teoria, qualunque fosse». Lacan punta affinché l’oggetto a possa ridursi ad una piccola lettera per designare qualcosa che è inafferrabile. Ma nel testo c’è una sfumatura: «scriverlo con una lettera lo rende affine a una logica». Ciò lascia intendere che è l’apparenza di un oggetto matematico. Nella lezione ottava del seminario XX Lacan abbandona l’idea che l’oggetto a possa sostenersi nell’accostare il reale: «L’oggetto a si risolve nel proprio scacco». Questa frase mostra la logica di gomma di Lacan. Incontra un’impasse teorica nella concettualizzazione dell’oggetto e dice: «Questo si risolve nel proprio scacco. Si risolve non potendosi sostenere nell’accostare il reale». L’oggetto a che Lacan sosteneva come un oggetto matematico, quindi un oggetto vicino al reale, alla fine non tiene. In ultima istanza, la a minuscola resta prigioniera della parentesi nella quale si trovava connotata all’inizio: i(a), cioè l’immagine dell’altro. “Ho scritto a minuscolo ma resta un oggetto immaginario”, è un oggetto che proviene dalla teoria del narcisismo, dallo stadio dello specchio. Malgrado gli sforzi di Lacan in diversi testi, si vede che tenta di fare dell’oggetto un puro concetto, che non sia una sostanza, si può citare La logica del fantasma, o dove fa girare l’oggetto a rivoltando i discorsi, o nelle formule della sessuazione.
Lacan deve riconoscere che questo oggetto non è che una parvenza d’essere, che l’oggetto a risponde a qualche immaginario, che si veste dell’immagine di sé. Miller dice che c’è un’affinità troppo grande dell’oggetto a con il proprio involucro. Dunque quando maneggiamo l’oggetto a maneggiamo della parvenza, e il reale è davvero qualcos’altro. Il modello del reale è la formalizzazione matematica che si situa al livello in cui «non vuole dire niente». Se l’oggetto a è una parvenza d’essere dà il proprio supporto all’essere, ma questo produce qualcosa tra l’insopportabile e la mancanza di sostegno. Questa parvenza d’essere emana qualcosa d’insopportabile. Per uscire dall’insopportabile bisogna dire qual è il segreto dell’ontologia: che l’essere è soltanto parvenza.
Sono partito dall’“Io sono” messo tra parentesi e a fine percorso arriviamo ai limiti dell’ontologia. Vediamo come l’“Io sono” così sospeso è da leggere come una sorta di terrore nel mondo della rappresentazione, terrore della fragilità della sua posizione. I limiti dell’ontologia si contrassegnano attraverso questa differenza, che Miller mette in evidenza nel suo Corso, dove bisogna notare che essere non è la stessa cosa che esistere, che l’essere si situa sempre a livello del senso ma che lascia da parte la questione di sapere che cosa esiste, che, in fondo, si potrebbe dire che quello che esiste è quello che resiste, nel senso in cui Lacan dice ne La Terza che il reale è quello che si mette di traverso. Questo tocca le affinità del reale con l’impossibile. Quando qualcosa resiste davvero allora, possiamo dire, c’è l’Uno.
Bisogna leggere La Terza con questa oscillazione, oscillazione nella quale, l’anno precedente, Lacan ha manifestato la propria rinuncia in riferimento all’essere. Una rinuncia all’ontologia su cui il giovane Miller aveva puntato in quello che fu il suo primo intervento durante l’insegnamento di Lacan. A partire da La Terza Lacan privilegerà il registro del reale e svilupperà l’uso del nodo borromeo che rappresenta, matematicamente, che procediamo soltanto dall’Uno.

Trascrizione: Cecilia Falcetta

Redazione: Giuseppe Perfetto

martedì 12 maggio 2015

Seminario del 11 aprile 2015 Docente invitato: Emmanuelle Borgnis Desbordes

LA TERZA – Dal sintomo al sinthomo

Sono onorata di condividere con voi quello che tocca il nostro essere e impegna il nostro desiderio: la nostra preoccupazione di cogliere, quanto più da vicino, l’originalità e la forza dell’insegnamento di Lacan, un insegnamento che non smette di trasmettersi, all’altezza di questi desideri che corrono in noi e al di là di noi.
Ringrazio Marco Focchi e Domenico Cosenza per avermi dato l’occasione di parlare alla Sezione Clinica di Milano di ciò che conta per me: la trasmissione dell’insegnamento di Lacan in terra d’Italia… che è di una bellezza ineguagliabile. Non resisto al desiderio di dire che ho un antenato d’origine italiana, che faceva parte della scuola di Bologna e ha decorato molte chiese in Italia. Ogni volta che torno in Italia c’è sempre per me una sorta di ritorno alle origini, origini di cui ho fatto un romanzo familiare che sicuramente è immaginario, ma che svolge la sua funzione. Ogni volta che mi avvicino al Piemonte e al villaggio di Craveggia sono rapita, ma vi assicuro che lo sono in modo ragionevole. Qualche tentazione estatica mi traversa quando sono in terra italiana, Lacan aveva ragione quando diceva ne La terza che c’era a Roma, e in Italia, troppo Spirito Santo, laddove sappiamo da Lacan che non c’è Altro dell’Altro, tuttavia, continuiamo a sognare il Padre, per quanto se ne dica.

Lavoreremo le linee e i nodi de La terza, essi obbediscono a una logica rigorosa, ma ci conducono sempre più lontano dove il significante manca per dirlo. La terza corrisponde a due lezioni di Lacan pronunciate a Roma, si situa dopo Il Seminario XX Ancora, tra Il Seminario XXI Les non dupes errent e Il Seminario XXII RSI.

Il cogito cartesiano e le sue variazioni
«Penso dunque sono», Cartesio.
«Penso: dunque sono», Lacan.
«Penso che sono», Lacan, La terza.
Inizio dalle prime righe de La terza, parlando di Cartesio e del suo cogito. Il cogito cartesiano presenta variazioni nel seminario di Lacan, correlative al cambiamento del modo in cui si coglie il soggetto dell’inconscio. Cartesio dice: “penso dunque sono”. C’è una seconda tappa nell’insegnamento di Lacan dove il cogito è scritto: “penso: dunque sono”. Quello che penso è: “dunque sono”. Un’evoluzione ulteriore è: “sono dove non penso”. 
Nel cogito Cartesio afferma l’esistenza di un soggetto purificato, trasparente, il soggetto trascendentale che è indispensabile per la scienza e per l’uomo moderno, così sicuro di essere se stesso nella misura in cui pensa di essere nel suo pensiero: lì dove penso, io sono. La psicoanalisi lacaniana sposta questo assunto: il soggetto non si deduce da un “io penso” che lo farebbe esistere, non si deduce da quello che vede, o sente, oppure dalle sue determinazioni biologiche o naturali. Il soggetto esiste in quanto rappresentato da un significante per un altro significante (è la nota concezione di Lacan degli anni ‘50, de Il Seminario III Le psicosi o di Una questione preliminare a ogni possibile trattamento della psicosi). La rivoluzione freudiana, di cui Lacan descrive a suo modo i meccanismi significanti (metafora e metonimia), sposta le posizioni cartesiane. Dove sono il giocattolo del mio pensiero (nell’inconscio) non sono, e dove non penso di pensare (cioè nel gioco significante) è proprio lì che penso a quel che sono. Poiché il significante e il significato non hanno un asse comune, l’uomo non può essere collocato in un punto fisso, come luogo centrale in cui significante e significato si corrispondano.
Alfredo Zenoni mostra che: «Il soggetto su cui opera la psicoanalisi non è l’uomo, ma quel che risulta dalla sua abolizione operata dal sapere scientifico, quello che risulta dalla sua dissoluzione nell’insieme delle leggi e dei determinismi (biologici, economici, antropologici…), ma nella misura in cui questo svuotamento non equivale alla completezza del sapere dove quest’uomo si dissolve». È un interessante lavoro di Zenoni intitolato Il corpo dell’essere parlante, nella citazione dice che il soggetto non si riferisce a una completezza, come in Cartesio, ma che si tratta piuttosto del soggetto di una “incompletezza”, come nel Lacan degli anni ’60, e nel ’70 Lacan parlerà piuttosto di “inconsistenza”. Il soggetto risulta da un’operazione di “svuotamento” di godimento, ed esiste in quanto ne è separato. Questo godimento, escluso, solleva un’obiezione al senso, si situa dal lato del fuori senso, come è stato colto da Lacan in diversi modi, dal lato del reale, dell’insopportabile... Negli anni ’60, per Lacan c’è umano solo nella misura in cui c’è un No al godimento, laddove per “umano” intendo iscrizione del soggetto nel legame sociale, e un Nome del Padre che regola il rapporto con il mondo per ogni soggetto, il mondo degli altri, dell’Altro e del suo godimento. Nel Rapporto di Roma del’53, Lacan c’introduce al No al godimento e alla regolazione attraverso il Nome del Padre. La parola è assassinio della cosa, e le formazioni umane hanno per essenza, e non per accidente, la caratteristica di frenare il godimento. Nel ‘70 l’Altro non esiste, e Lacan colloca il corpo e lalangue: «Soltanto attraverso il fatto di parlare il soggetto può avere un corpo e credersi di essere». Il partner del parlessere (non dice più “soggetto dell’inconscio”, ma “parlessere”) è un corpo che si gode (corpo parlante). Mentre l’insegnamento di Lacan si orientava nel fondamento del soggetto dell’inconscio con il significante e le sue combinatorie, ora, invece, Lacan prende la via del corpo e della sua lalingua per porvi le assise del suo parlessere: il soggetto è parlato ma, soprattutto, parlante attraverso un corpo che mobilita il suo essere di godimento. Il desiderio lascia il campo dell’approccio platonico per aggregarsi al corpo e parlare da lì… le testimonianze di passe ce lo testimoniano regolarmente.
Torniamo alla torsione di Lacan del cogito cartesiano. La prima torsione la incontriamo nel seminario L’identificazione (1961-62). “Penso: dunque sono”. Lacan realizza una prima rottura: “Penso dove non sono, dunque sono dove non penso”. L’essere inteso come “sono” si separa dal pensiero, dalla significazione, dal senso, e anche dalla combinatoria significante, per articolarsi al corpo. Il soggetto è sempre incastrato nelle identificazioni, in specularità che gli danno parvenza d’identità, che non cessano di costruirlo come un bricolage, parassitato dal linguaggio. Preso in un linguaggio di cui non è padrone, lalingua parla a sua insaputa e gioca la sua partizione nel corpo. Dunque, è il corpo che parla. Parlato nella misura in cui è parlante, il soggetto è alienato a una lingua che non sempre conosce, alle prese con significanti che lo rappresentano ma il cui significato gli sfugge. È qui che Lacan introduce la dimensione del fuori senso. Anche se nelle sedute di analisi i significanti proliferano, e il senso è loro attribuito dal soggetto stesso, si tratta di mirare a una riduzione del senso. Di tale purificazione del godimento nel campo dell’Altro, di riduzione dell’Altro all’Uno, il soggetto non è che quel niente d’essere che ha fatto tanto parlare e godere.
La seconda torsione, rappresentata da “Sono dove non penso”, si verifica ne La terza, dove dice: “Penso dunque je souis”. Al je suis si sostituisce un je souis, “essere” non come quello dei filosofi, ma “essere” di godimento: condensa essere e godimento in un solo termine. È un io godo condensato. 
La questione dell’essere che fino allora ha occupato i filosofi è individuata da Lacan non con la sostanza ma attraverso il godimento, e il modo di rapportarsi col godimento da parte di ciascuno. 
Da La terza l’essere si coglie attraverso il nodo tra Reale, Immaginario e Simbolico. Un essere che non è l’“Essere” dei filosofi, ma “una parvenza” (presente a partire dal Seminario L’envers de la psychanalyse). Ne La terza Lacan denuncia quelli che si illudono sulla possibilità per il soggetto di raggiungere un sapere costituito, una conoscenza, un sapere sulla verità ultima, invece, il soggetto non ha alla fine che un solo significante che lo rappresenta presso tal sapere: «È un rappresentante, per così dire, di commercio con questo sapere costituito, ossia per Cartesio, com’è d’uso ai suoi tempi, per via dell’inserimento nel discorso in cui è nato, con il discorso che chiamo del padrone, del nobiluccio».

Annodamento
A partire dal parlessere l’essere si trova in ciò che è stretto dal nodo, intorno all’oggetto a. L’annodamento dei tre registri RSI è per Lacan la sola verità che valga, quella dell’essere, “verità” non nel senso di “verità ultima” ma di verità singolare, che è quella dell’essere. Il nodo è l’essere.




Nel punto in cui si stringono i tre anelli troviamo l’oggetto a. L’oggetto a lo rintracciamo in tutto l’insegnamento di Lacan. Esso designa, nel calcolo della logica propria al discorso analitico, ciò che non appartiene al significante (reale, godimento, pulsione). A lungo l’oggetto a è stato un buco, ma a partire da La terza esso è operativo nel registro del reale, a titolo di un oggetto di cui non abbiamo idea, che non è rappresentabile.
Lacan si rivolge a degli analisti, che sono lì per formarsi, per spiegare come si debbano collocare in posizione di parvenza dell’oggetto a, offrire l’oggetto a che l’analista incarna come causa del suo desiderio all’analizzante. E prosegue dicendo che: «questo nodo bisogna esserlo». Quando dice che deve essere in posizione di oggetto a intende di parvenza. Questo non può pensarsi senza la relazione transferale. Il fatto che l’analista si collochi in posizione di oggetto a è ciò che annoda la traslazione, e permette di avvicinarsi al reale non come alla verità ultima ma in un rapporto singolare relativo alle coordinate soggettive. L’oggetto a trova la sua funzione di agente nella scrittura del discorso dell’analista. Nel discorso dell’analista l’oggetto a è in posizione di agente, a differenza del discorso del padrone dove al posto dell’agente abbiamo l’S1 che si impone al soggetto diviso. Tutto l’interesse di una analisi sta nel fatto che l’oggetto a sia in posizione di agente, il che permette la realizzazione di un sapere.



Nel discorso dell’analista è l’oggetto a come parvenza che conduce il gioco. Ne La terza Lacan dice che non è «un sembiante più sembiante che al naturale», si tratta di una provocazione verso gli analisti dell’IPA, «E allora siate più distesi, più naturali quando ricevete qualcuno che viene a chiedervi una analisi (...) anche come pagliacci siete giustificati a essere», la nozione di buffone funziona come parvenza, come dire: buffone avvertito.
Lacan prosegue, parlando agli analisti: «Il simbolico, l’immaginario e il reale sono l’enunciato di ciò che opera nella parola, quando vi situate a partire dal discorso analitico, quando – analisti - lo siete». Questi termini emergono “per” e “da” il discorso dell’analista.
Il punto di mira del discorso del padrone è che le cose funzionino, che stiano al passo, esso mette da parte il reale, ovvero ciò che fa punto di arresto, che obietta al buon funzionamento del mondo e dell’io, e che è all’origine della costruzione del sintomo.



Dal soggetto dell’inconscio al parlessere
L’inconscio non è più un discorso da decifrare attraverso una macchina linguistica, ma è un inconscio che si rivela attraverso l’annodamento RSI, dove sono annodati il reale del godimento, il corpo e la struttura dell’apparato inconscio. Attraverso l’attività di cifratura, man mano che si sviluppa la catena parlata, l’inconscio produce un senso: quest’attività è in se stessa l’esercizio di un godimento. Lacan parla di godi-senso, godere del senso, e del senso goduto. Quindi, il godimento accompagna il soggetto dell’inconscio. Ogni soggetto gode dell’attività di cifratura, ma l’esperienza analitica tocca il reale della pulsione. Che tutto il reale nel soggetto non sia simbolizzabile, formulabile in parole, tuttavia non impedisce di considerare questo resto a partire da un inconscio rielaborato per includere il fuori senso, precisamente quello del godimento del corpo, eterogeneo al significante, ma a esso annodato.
Nelle sue conferenze a Sainte-Anne, nel ‘72, Lacan inventa il concetto di lalangue per designare il “brodo di coltura” della materia sonora che non segue il ritaglio linguistico delle parole e le leggi della sintassi. La lalingua implica il godimento che vi è depositato.  Negli anni ’70, il primo posto è dato al corpo che gode, che parla lalangue. Allo scopo di far apparire gli effetti della lalingua, Lacan usa neologismi da prendere come forzature del linguaggio. E così, nel ’74, introduce il termine parlessere per designare «l’essere carnale devastato dal verbo», «che parla questa cosa che strettamente attiene [solo alla langue], cioè l’essere». Il parlessere reintroduce la dimensione della pulsione nel verbo, laddove il soggetto dell’inconscio e il godimento sono in esilio reciproco, separati.

Il reale. Dalla bellezza all’impossibile
L’etica della psicoanalisi prende il suo punto di partenza dal reale, cioè si interessa a “ciò che non va”, che è senza equivalenza, senza misura. La singolarità è dal lato del reale, costituisce un punto d’arresto, un’impasse, ed è indice di godimento. 
Avevamo un oggetto a che faceva buco e che poi sostiene il nodo, ora vi è un reale che era insopportabile e diventa, invece, indice di godimento. 
Dove il Diritto si occupa dei rapporti, la psicoanalisi si occupa del non rapporto, di ciò che non ha uguali. La psicoanalisi inizia da una discontinuità della vita del soggetto. Il gioco delle equivalenze significanti che la psicoanalisi mette in opera, con l’associazione libera, non è al servizio di un senso condiviso, bensì di un fuori senso singolare. Un soggetto arriva in analisi a partire da ciò che non va, dagli ostacoli che impediscono il buon funzionamento della sua vita. Egli testimonia di un reale con il quale ha a che fare a partire dai sintomi, che gli impediscono di vivere tranquillamente. Eppure, i sintomi, per quanto dolorosi, sono già segni di una creazione soggettiva in atto. La psicoanalisi ha sempre fatto dei sintomi non i segni di una disfatta delle facoltà, di un disfunzionamento o di una debolezza della volontà, ma punto di creazione di un soggetto intorno ad un reale che è opportuno far emergere. È da lì che si deve partire per capire quello che del soggetto cerca di dirsi. La mira degli “educatori dello spirito e del corpo” è di ridurre il sintomo, invece gli analisti raccolgono preziosamente questa costruzione che è già un trattamento del reale con cui il soggetto ha a che fare. La traslazione gioca la propria parte, coglie l’impossibile e si avvicina a un reale inerente alla struttura, struttura eterogenea al senso: «Chiamo sintomo ciò che viene dal reale. Ciò vuol dire che si presenta come un pesciolino il cui becco vorace si richiude solo mettendo del senso sotto i denti. (…) Allora delle due l’una, o questo lo fa proliferare (...) oppure crepa».
Ma Lacan fa un passo in più e precisa: «Il senso del sintomo non è quello con cui lo si alimenta per la sua proliferazione o la sua estinzione. Il senso del sintomo è il reale». E il reale si caratterizza come fuori senso.
Sulla nozione del sintomo come «ciò che il soggetto ha di più reale», riguardo al sintomo nell’insegnamento di Lacan ci sono due tempi. Nei primi tempi Lacan dava al sintomo lo statuto di interpretabile, grazie alle formazioni dell’inconscio. È il sintomo come metafora, come sostituzione significante, è quel che è divulgato oggi quando si afferma che quel che non riesce a dirsi si mostra nel corpo. Il sintomo è inteso come evento di discorso che ha lasciato delle tracce nel corpo, che disturbano il corpo. Il soggetto parla con il proprio corpo e l’esperienza analitica permette di decifrare i significati del sintomo grazie al ritorno del rimosso. Nella nevrosi il sintomo cede attraverso la decifrazione. 
Restare a questa concezione significa trascurare che il sintomo, malgrado generi sofferenza, è anche una fonte di godimento, godimento al quale il soggetto tiene. Una volta chiarito il sintomo sul piano significante (decifrazione), il soggetto non abbandona la parte di godimento che ne trae: è questa parte che Lacan cerca di cogliere nella sua seconda concezione del sintomo. Questa concezione rinvia all’idea di un sintomo-partner, nel senso che il soggetto si garantisce un godimento facendo del proprio sintomo un partner sul quale potrà contare in modo continuativo. Se il sintomo è partner del soggetto, possiamo dire che in psicoanalisi ci sono solo trattamenti sintomatici, quindi il soggetto ha un partner dall’inizio alla fine dell’esperienza analitica; questa esperienza ha di mira un reale al di là del senso. Pertanto non bisogna far proliferare il sintomo con aggiunte di senso, o attraverso un uso selvaggio dell’interpretazione che blocca il lavoro.
Nel Seminario RSI, che viene subito dopo La terza, Lacan persiste nel dire che nutrendo di senso il sintomo non si fa che dargli continuità di sussistenza. In una frase importante, perché tratta del punto di mira della cura, per esempio dice: «è in quanto qualcosa del simbolico è delimitato da ciò che ho chiamato il gioco di parole, l’equivoco che comporta l’abolizione del senso, che tutto quel che concerne il godimento e in particolare il godimento fallico, può parimenti delimitarsi». Il sapere inconscio, che non è un sapere costituito come chiuso, attraverso l’intervento analitico prevale sul sintomo, quindi non partecipa di ulteriore senso, ma di chiusura. 
Ho scelto di entrare ne La terza attraverso la concezione del sintomo, che mi sembra quel che il soggetto ha di più reale, per avanzare sulla mira nella cura analitica, dicendo come sia dalla parte di una riduzione del senso e di una stretta sul godimento fallico.

La cornucopia del sintomo
Per cogliere la nuova concezione del reale e del sintomo nell’insegnamento di Lacan prendiamo in parallelo La terza e il Seminario RSI, che sono distanziati da un breve lasso di tempo. 





Per capire mettiamo in alto l’anello dell’immaginario, perché in altre lezioni di Lacan il nodo gira e ciò cambia la prospettiva. Lacan mette dal lato dell’Immaginario il corpo, dal lato del Reale la vita, dal lato del Simbolico la morte, e al centro l’a minuscola. Quando Lacan dice che il sintomo è ciò che il soggetto ha di più reale, situa il sintomo da quel lato tratteggiato, che rappresenta il morso del simbolico sul reale. 
In RSI la posizione del sintomo cambia, il sintomo non è più il Simbolico che morde sul Reale ma emana dal Reale e partecipa dell’organizzazione del Simbolico. Il sintomo non si sviluppa più nel campo del Simbolico ma nel campo del Reale. 
Bisogna partire dalla topologia e pensare che quel che Lacan chiama “essere” è nell’annodamento dei tre anelli. Prima de La terza, negli anni ‘50-’60, il sintomo cedeva attraverso la decifrazione, il fatto di dargli senso. In questo primo schema vediamo che il sintomo è il modo in cui il Simbolico morde sul Reale, mentre in RSI il sintomo viene dal Reale e organizza il Simbolico. A partire da questo spostamento, ciò che rileva non è il senso ma il fuori senso.
In primo luogo, il cambiamento riguarda la posizione del sintomo. Lacan situa il senso in posizione opposta alla vita, piuttosto la vita è dal lato del fuori senso. Abbiamo il corpo in posizione opposta al godimento fallico, perché il rapporto sessuale non esiste. Lacan colloca in opposizione alla morte il godimento dell’Altro. In fondo, si tratta di sottrarre a ognuno di questi godimenti l’oggetto a. Quindi l’analista si fa sembiante di oggetto a per cogliere il godimento. La vita è in opposizione al senso, il godimento fallico è opposto al corpo, il godimento dell’Altro è in opposizione con il Simbolico e testimonia che non c’è Altro dell’Altro.



Si tratta di capire come in ogni posizione l’oggetto a sia da sottrarre alla posizione di godimento. Per Lacan, l’operazione analitica mira a ridurre il senso perché il soggetto sia più vicino al suo essere. La psicoanalisi avrebbe potuto prendere la via della guarigione dei sintomi e del loro senso, ma ha fatto la scelta di prendere il sintomo come segno di un modo particolare di godimento.
Lacan dirà che il solo fatto di mettersi a parlare implica già una formazione sintomatica. La posta in gioco è conservare il reale del godimento attraverso la funzione del sintomo, in quanto scrittura di godimento che non è completamente assunta dalla parola. Lacan precisa che «il sintomo è qualcosa che prima di tutto non cessa di scriversi nel reale». E in RSI: «c’è coerenza tra il sintomo e l’inconscio. Definisco il sintomo attraverso il modo in cui ciascuno gode dell’inconscio, in quanto l’inconscio lo determina».

Verso un corpo parlante
Dopo il cogito cartesiano, dopo il passaggio dal soggetto dell’inconscio al parlessere, facendo un ponte con i temi del prossimo Congresso di Rio, andiamo alla nozione di “corpo parlante” presente ne La terza.
Lacan introduce la nozione di “corpo parlante” nel momento stesso in cui inserisce il nodo borromeo nel suo insegnamento. 
Mentre prima si trattava di un corpo “parlato”, ora ciò che chiama il mistero del corpo “parlante” è il reale del nodo, della scrittura nodale. È chiamato “parlante” il corpo, e non più il soggetto.
Nella concezione strutturale di Lacan il corpo è l’immaginario, in quanto lo cogliamo come forma, lo valutiamo nella sua apparenza e lo adoriamo come immagine. Nella nevrosi l’uomo crede di avere un corpo da adorare. Questa credenza è quel che Lacan colloca alla radice dell’immaginario. Nel seminario Il sinthomo parla di “mentalità”. Il parlessere ha una mentalità, vale a dire dell’amor proprio. Senza questa consistenza mentale del corpo niente terrebbe insieme il parlare a vuoto e il reale del godimento. Ma non c’è solo il corpo in quanto si immagina, c’è anche il corpo che gode di se stesso, giacché si gode: luogo di un godimento opaco perché tocca il reale che, come tale, lo esclude dal senso. Questo godimento è quello del sintomo, che Lacan definisce come evento di corpo.
Il corpo, quindi, partecipa dell’Immaginario e del Reale, «due luoghi della vita che la scienza separa». Ma c’è anche il corpo che rileva del simbolico in quanto simbolizza l’Altro. La tesi risale al seminario La logica del fantasma dove, nella lezione del 10 maggio 1967, l’Altro viene così ridefinito: «Mi son lasciato dire per un tempo che camuffavo sotto questo luogo dell’Altro quello che si chiama gentilmente lo Spirito. La cosa noiosa è che è falso. L’Altro, alla fin fine non l’avete ancora indovinato, è il corpo». L’Altro è il corpo. Nel ‘67 Lacan completa questa tesi ne Il rovescio della psicoanalisi con la domanda: «Cosa è che ha un corpo e non esiste? risposta: l’Altro maiuscolo. Se ci crediamo a questo grande Altro, esso ha un corpo ineliminabile dalla sussistenza che ha detto Sono quel che sono che è tutt’un’ altra tautologia». Il problema è che corpo e godimento si escludono strutturalmente, si escludono attraverso l’incorporazione primordiale, quella del corpo simbolico nel corpo primario, nel corpo organismo. Quest’incorporazione fa sì che l’Altro sia deserto di godimento. Dal momento in cui entriamo nel linguaggio l’Altro come corpo è terrapieno ripulito dal godimento. L’Altro prende corpo, si immerge nel soma al tempo stesso in cui la carne evapora, come nel primo giorno della genesi.
Tuttavia perché vi siano effetti di parola bisogna che l’Altro, cioè il simbolico, costituisca un nodo con l’immaginario e il reale; ciò non impedisce che si vorrebbe godere del corpo dell’Altro, e che ci piacerebbe anche farlo godere, soprattutto quando ci si dà al corpo a corpo. Perché questo godimento del corpo dell’Altro, che si sia uomo o donna, si cerca, lo si suppone, vi si aspira, vi si corre dietro quando si è nella stretta, e vi è una topologia della compattezza, come Lacan spiega all’inizio di Ancora. Gli uni e gli altri corrono dietro a un godimento dell’Altro, causato dal superio, «spinta a godere» che la rilancia e che ne respinge il punto d’arrivo all’infinito. Nella stretta, lo spazio del godimento sessuale mobilita nei partner sessuali la presenza dell’Altro, ove ciascuno aspira a raggiungerlo per godere del corpo che simbolizza, in una corsa dove il superio gioca la propria partita. Infatti, è dal superio che viene l’esigenza dell’infinitezza, l’esistenza di un rapporto sessuale.
Così il godimento del corpo, e dell’Altro che lo simbolizza, resta per ciascuno dei partner inaccessibile. Questo non vuol dire che nessun godimento sia accessibile. Ci sono dei godimenti ai quali ciascuno dei partner ha accesso: godimenti accessibili che vengono come supplenza al rapporto sessuale che non c’è. Quelli che suppliscono, per l’uomo, sono il godimento dell’oggetto del fantasma e il godimento fallico. Il godimento dell’oggetto a è asessuato. Il fantasma fa godere dell’a-sessuato. Questo godimento sostitutivo di quello dell’Altro Lacan lo chiama, in Ancora, «il godimento dell’essere», dell’essere della significanza. Il godimento fallico è il godimento dell’Uno fallico, la cui serie è infinita ma limitata, arrestata dalla castrazione di cui il Φ scrive il limite. Questo godimento dell’Uno è anche quello proprio dell’inconscio. Anche per una donna sono accessibili questi due godimenti, dell’a e del Φ, dell’essere e dell’Uno. Ma per lei è accessibile, ancora, un altro godimento in più, supplementare, che si apre sulla beanza dell’S(A), il godimento del -1, dove è come uno in meno che ella gode.
Se il sintomo ha un involucro formale è anche una parte di noi stessi, un «evento di corpo». L’incontro che Lacan chiama traumatico, giocando sulle parole buco (trou) e traumatico, s’impone come un «para-angoscia» nella nostra modernità, ovvero un modo di rispondere dal proprio posto singolare al godimento tutto, alla tirannia del «tutto». Sulla questione del sintomo e della modernità, Eric Laurent afferma: «Per questa parte di corpo che posso riconoscere come mia, ho accesso al significante dell’Altro in me, a questo messaggio venuto da altrove. Quando sono di fronte all’Altro, l’Altro non è esterno a me, egli è in me. Sono l’Altro che è là. Questo accesso stesso lo possiamo designare come la credenza del soggetto al sintomo. La prova attraverso il sintomo è che esso dà accesso all’inconscio come modo di godere».
L’ultimo insegnamento di Lacan con lalangue e il parlessere decide sulla questione freudiana della divisione (Spaltung). È un rovesciamento di prospettiva dove il reale del godimento è posto innanzitutto nella singolarità in cui si intrecciano il vivente e il verbo.

Conclusione
Come dice Jacques-Alain Miller, il parlessere è un «indice di quel che cambia nella psicoanalisi del XXI secolo, quando essa deve prendere in conto un altro ordine simbolico e un altro reale rispetto a quello sul quale vi era stabilità». Il sinthomo ha tradotto lo spostamento dal sintomo dell’inconscio al parlessere. Nell’introduzione al Congresso di Rio, Jacques-Alain Miller dice: «il sintomo come formazione dell’inconscio strutturato come un linguaggio, è una metafora, un effetto di senso, indotto dalla sostituzione di un significante a un altro. In compenso il sinthomo di un parlessere è un evento di corpo, un affioramento di godimento».
Con il proprio sintomo, ovvero il modo singolare di fare del bricolage con l’incurabile del reale, ciascuno dei creatori (artisti, analisti e analizzanti) vuole arrampicarsi sullo sgabello dell’opera, ossia fare del proprio sintomo uno sgabello per mettere in luce il godimento opaco del sintomo; «il godimento proprio del sintomo esclude il senso». Nel ’75 Lacan inventa questa parola, “sgabello”, “S.K.beau”: un gioco di parole in francese, che scrive come costruita da “S”, “K” e “beau” (bello), per qualificare l’estetica di James Joyce. “S.K.beau” è riutilizzato qui, ci dice Castanet, «con la sua tipografia stupefacente per mettere a nudo il reale con il quale l’artista si confronta che le possibili sublimazioni velano. Al cuore del bello (del vero, del buono, del perfetto, del sublime...) ci sarà sempre questo S.K. enigmatico fuori senso». Che cos’è questo sgabello psicoanalitico, se così possiamo chiamarlo, Jacques-Alain Miller ne parla ne L’inconscio e il corpo parlante: «ciò su cui si issa il parlessere, sale per farsi bello. È il suo piedistallo che gli permette di innalzarsi egli stesso alla dignità della Cosa. (…) Lo sgabello è un concetto trasversale, traduce in modo immaginifico la sublimazione freudiana, ma al suo incrocio con il narcisismo. (…) Lo sgabello è la sublimazione ma in quanto fondata sul non penso del parlessere. Cosa è questo non penso? È la negazione dell’inconscio attraverso cui il parlessere si crede padrone del proprio essere. Con il suo sgabello si crede un padrone bello. Quel che chiamiamo la cultura non è altro che la riserva di sgabelli dove attingiamo quello con cui ci pavoneggiamo e facciamo i gloriosi».

Lo sgabello permette l’accesso a una bellezza ineguagliata che prendendo il reale nel proprio solco mira a un al di là. Antigone potrebbe esserne una figura e una metafora. Perché se Antigone affascina per il suo desiderio, ella affascina soprattutto per lo sfolgorio di bellezza che lascia come scia. Antigone rende effettivamente presente questo limite estremo e superato del Bello, che Sade aveva isolato nella forma del dolore mortale e che Lacan aveva tradotto come «seconda morte». In questa zona della morte il raggio del desiderio si riflette, si rifrange, e dà questo effetto così particolare, l’effetto del bello sul desiderio. Laddove il significante manca per dire La donna, Antigone non trae il proprio sfolgorio che da un superamento ai limiti del senso. Lacan dice nel Seminario VII: «il miraggio della bellezza indica il posto del desiderio in quanto desiderio di niente, rapporto dell’uomo con la propria mancanza a essere». Siamo all’opposto della completezza del sapere e dell’essere. Così, la clinica del parlessere dà alla cura analitica la sua dimensione d’esperienza inventiva. L’incidenza clinica è nota, la clinica lacaniana del parlessere determina un’esperienza che apre per ogni soggetto a un’etica della responsabilità del suo modo singolare di godimento. Jacques-Alain Miller dice: «una volta rovesciati gli sgabelli, bruciati, resta ancora al parlessere analizzato di dimostrare il proprio saperci fare con il reale, la sua capacità di farne un oggetto d’arte, il suo saper dire e il suo saperlo dire bene».

Trascrizione e traduzione: Anna Castallo
Redazione: Giuseppe Perfetto