lunedì 3 dicembre 2012


Istituto freudiano Sede di Milano
a.a. 2012-2013 – Materie di insegnamento

Testo di base
J. Lacan, Il Seminario, Libro IV. La relazione oggettuale. Einaudi, Torino 2007.
I ANNO
Psicologia generale - ALBERTO TUROLLA
Psicologia dello sviluppo - FABIO GALIMBERTI
Storia della psicoterapia - ISABELLA RAMAIOLI
Elementi di clinica psicoanalitica - MAURIZIO MAZZOTTI
Fondamenti antropologici della psicoterapia e della psicoanalisi
RAFFAELE CALABRIA

Teoria e clinica psicoanalitica nell’orientamento di Freud e Lacan (Docenti invitati, responsabile il Direttore di Sede)
II ANNO
Testo di base
J. Lacan, Il Seminario, Libro V. Le formazioni dell’inconscio. Einaudi, Torino 2004.
Psicoanalisi e neuroscienze - GELINDO CASTELLARIN
Psicopatologia dell'infanzia e dell'adolescenza - PIETRO BOSSOLA
Elementi di clinica psicoanalitica II - LUISELLA BRUSA
Teoria psicoanalitica: i postfreudiani - PAOLA FRANCESCONI
Fondamenti di linguistica strutturale - DANIELE TONAZZO 
Teoria e clinica psicoanalitica nell’orientamento di Freud e Lacan (Docenti invitati, responsabile il Direttore di Sede)

III ANNO
Testo di base
J. Lacan, Il Seminario, Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Einaudi, Torino 2003.
Psicodiagnostica clinica – DONATA ROMA
Psicopatologia generale e dello sviluppo II - MATTEO BONAZZI
Clinica psicoanalitica delle nevrosi e delle psicosi - ALBERTO VISINI
Fondamenti epistemologici e filosofici della psicoterapia e della psicoanalisi - MARCO FOCCHI
Fondamenti di logica - GIULIANA KANTZA’
Teoria e clinica psicoanalitica nell’orientamento di Freud e Lacan (Docenti invitati, responsabile il Direttore di Sede)


IV ANNO
Testo di base
J. Lacan, Il Seminario, Libro XXIII. Il sinthomo. Astrolabio, Roma 2006.
Interventi clinici nelle istituzioni socio-sanitarie - GIUSEPPE POZZI  e ALTRI

Clinica psicoanalitica delle nevrosi e delle psicosi II con elementi di psicofarmacologia - GIOVANNA DI GIOVANNI

Clinica psicoanalitica delle dipendenze - DOMENICO COSENZA 

Fondamenti di topologia della psicoterapia e della psicoanalisi  LEONARDA RAZZANELLI
Teoria e clinica lacaniana: laboratorio sui concetti base - MASSIMILIANO REBEGGIANI e ADELE SUCCETTI

Teoria e clinica psicoanalitica nell’orientamento di Freud e Lacan (Docenti invitati, responsabile il Direttore di Sede) 

INCONTRI CON IL DIRETTORE DELL’ISTITUTO FREUDIANO SEDE DI MILANO – MARCO FOCCHI

Gli incontri sono rivolti agli Allievi dell’Istituto freudiano iscritti alla Sezione clinica di Milano.
Date:

11 gennaio

22 febbraio

23 marzo

17 maggio

21 giugno

Orario: 18:00 – 19:30

lunedì 15 ottobre 2012

Seminario dell'Istituto freudiano di Milano. Lezione del 12 maggio 2012. Lettura del Seminario XXIII


Mi è stato chiesto di parlare del Seminario XXIII in una prospettiva particolare: le trasformazioni del sintomo nella cura. Il suggerimento mi è molto piaciuto, perché è vero che, nelle diverse letture che ne ho fatto, il Seminario XXIII ci dà la possibilità di pensare il sintomo come qualcosa la cui struttura è diversa dal punto di vista delle particolarità cliniche. Ci dà anche la possibilità di introdurre una dimensione di singolarità che va decisamente al di là di ogni idea di struttura. Questa pluralità del sintomo si applica a un solo individuo, come Lacan mostra con il caso di Joyce. Penso che gli strumenti che il Seminario XXIII ci fornisce siano perfettamente adatti per continuare il dibattito sulle questioni che ci interessano ora nel Campo freudiano, e in particolare sulla discussione che penso faccia parte delle psicosi ordinarie, dibattito che riguarda le psicosi infantili e l’autismo. Su questo argomento, l’autismo, attualmente nel Campo freudiano c’è un dibattito molto vivace, che si potrebbe riassumere nella domanda: l’autismo è una psicosi oppure no?
Se avete seguito il dibattito nei diversi numeri usciti di Lacan quotidien avete potuto vedere che J.-A. Miller, in un suo breve intervento, ha menzionato il fatto che anche nel Campo freudiano ci sono psicoanalisti che non considerano l’autismo come una psicosi. Io penso però che la prospettiva offerta dal Seminario XXIII ci permetta di andare al di là di un dibattito posto solo in termini di struttura e, forse, la questione del sintomo autistico può essere discussa in termini più precisi a partire dalla diversità delle soluzioni sintomatiche. Nel Seminario XXIII, negli esempi che dà a partire da Joyce, applicabili però ad altri casi possibili, Lacan sviluppa una nuova idea di sintomo.
Questa idea deve essere pensata a partire da una definizione dell’inconscio che ha cominciato a svilupparsi nell’insegnamento di Lacan a partire dal Seminario XX, e che presuppone un punto di svolta in questo insegnamento. Possiamo domandarci se abbiamo tratto completamente le conseguenze di questa nuova definizione dell’Inconscio. Anche se, in modo completo, evidentemente non è possibile. Trarre tutte le conseguenze possibili dell’ultimo insegnamento di Lacan penso sia  l’orientamento che J.-A. Miller tiene nel suo corso.
Questa definizione dell’inconscio include una novità: una dimensione della lettera diversa da quella cui aveva fatto riferimento Lacan in un testo classico come “L’istanza della lettera dell’inconscio”. La definizione del sintomo, nel Seminario XXIII, deve essere intesa da una parte considerando questa nuova dimensione della lettera, dall’altra a partire da uno sviluppo di tutte le modalità di godimento che Lacan ha cominciato a considerare a partire dal Seminario XX, a partire da una differenza tra il godimento fallico e il godimento supplementare. Questo vuol dire che occorre una nuova definizione di sintomo che tenga conto di questa divisione in seno al godimento, e che consideri anche la constatazione del fatto che non c’è Altro. Per questo possiamo dire, con Lacan, che il nodo è una conseguenza di quel che ha iniziato ad affermare a partire dal Seminario XIX, ovvero che non c’è Altro. 
 Il sintomo, in questa prospettiva, deve essere inteso come un’operazione del soggetto che, al tempo stesso, risponde alla problematica dell’opacità del godimento, e anche all’inesistenza dell’Altro. In rapporto allo sviluppo della questione del godimento nel Seminario XX, penso si possa dire che nel Seminario XXIII Lacan fa un passo ulteriore, perché le modalità del godimento fallico e del godimento supplementare introducono la dimensione della lettera come una cifra di godimento, che è in rapporto con l’idea freudiana di fissazione.
C’è un’ulteriore una prospettiva che mi sembra importante. Se nel Seminario XX Lacan introduce la questione della sessuazione, che mostra il vicolo cieco dell’identificazione. Nel Seminario XXIII, in rapporto al nuovo concetto di sintomo, Lacan va al di là: introduce qualcosa dell’identificazione che si aggiunge al trattamento del godimento attraverso la sessuazione. Ciò significa che con questa nuova modalità del sintomo Lacan pensa ci sia una via di identificazione che ha la funzione di supplenza rispetto all’inesistenza dell’Altro, che mette in scacco, sul piano strutturale, la possibilità dell’identificazione per cogliere il godimento. 
Nel lavoro di Lacan su Joyce vediamo che ci sono diversi modi di trattamento, da parte del soggetto, del problema dell’opacità del godimento. Come ci sono diverse modalità di godimento, ci sono anche diversi modi di trattamento possibile del problema del godimento da parte del soggetto. Con questa diversità di trattamenti si pone la questione  del loro eventuale collegamento.
Il Seminario XXIII ci mostra che il sintomo, per uno stesso soggetto, include operazioni differenti, ma contempla anche la possibilità di un annodamento tra queste operazioni differenti che dà l’opportunità di rispondere alla questione “Chi sono?” in un modo che va al di là dei paradossi e dei limiti dell’identificazione. 
Una buona parte del lavoro di Lacan su Joyce, con questa nuova definizione del sintomo, è in rapporto con un aspetto paradossale precedentemente segnalato: il fatto che l’oggetto, che in principio è  differenza assoluta, può dar luogo a un tipo d’identificazione. Questo introduce la sola possibilità di innalzare la singolarità assoluta del soggetto a un tipo di identificazione che è dell’ordine dell’identità. Come però vediamo nel Seminario XXIII, e più generalmente in tutto l’ultimo insegnamento di Lacan, il vero paradosso è che affinché il soggetto possa costruire questa modalità di identità deve integrare quello che per lui ex-siste nel modo più radicale. Per pensare questo paradosso bisogna considerare la funzione della lettera nell’inconscio come qualcosa che può partecipare al tempo stesso a una dimensione dell’identità del soggetto, ma senza, contemporaneamente, smentire l’idea di una esteriorità radicale, di una “ex-sistenza”. 
Alle due modalità che possiamo trovare descritte nel Seminario XX, bisogna quindi aggiungere un’altra condizione: il godimento della lettera in quanto tale. La lettera nell’inconscio non è legata alla dimensione della rappresentazione e neppure, in modo primario, alla dimensione del senso: la differenza dei sintomi deve essere pensata come differenti modi di trattamento del godimento.
La prospettiva del Seminario XXIII è coerente con l’idea che il sintomo sia un modo di godimento, ma ci obbliga a pensare “come” e “con che tipo specifico” di godimento e “in che modo specifico concreto per ogni soggetto” il proprio sintomo possa essere trattato – e sia in grado di trattare – i differenti tipi di godimento. Abbiamo da una parte il godimento della lettera, come qualcosa del simbolico che si introduce nel reale, un godimento legato al senso, dall’altra un godimento che resta sempre estraneo al simbolico. 
Penso che questa idea di pluralità dei godimenti e dei trattamenti dei godimenti, si possa riscontrare nel caso di Joyce. Tutto il lavoro che Lacan fa sul caso di Joyce parla di una dimensione molto diversa del suo sintomo, e tiene conto di cose molto diverse. Per esempio, considera un rapporto complesso con la questione della credenza, che non può essere riscritta in termini troppo semplicistici, come un oggetto radicale. Poi c’è il problema del posto di una donna, la moglie di Joyce, Nora, che per altro verso è un abbozzo di soluzione che avrebbe potuto essere delirante, ma che non si è sviluppata in tale direzione, e che Lacan cerca di cogliere, di identificare, con riferimenti molto discreti. Joyce, inoltre, avrebbe avuto la possibilità di occupare il posto di salvatore. Se questo si fosse sviluppato avrebbe dato luogo a una posizione classica di paranoia megalomane, e penso si possano trovare nella lettura del Ritratto dell’artista da giovane indicazioni sottili e discrete di una possibile soluzione delirante, il cui contenuto religioso sarebbe stato significativo.
Occorre differenziare alcuni momenti del sintomo di Joyce e, grosso modo, si potrebbero far corrispondere ai discreti e sommessi riferimenti biografici reperibili in primo luogo nel Ritratto dell’artista. Vi sarebbero poi alcune allusioni nell’Ulisse, che rivelano le differenti operazioni rispetto al padre e mostrano, per esempio nel personaggio di Bloom, la rinuncia ironica da parte di Joyce a trovare una soluzione dalla parte del padre, sia nel senso di trovare un sostituto paterno, sia in quello  di incarnare il figlio che salverebbe il padre, una via megalomane che potremmo considerare ancora abbastanza classica. Solo nell’ultimo tempo di Finnegans Wake si può considerare ci sia la stabilizzazione di un nuovo ordine, dove il trattamento del godimento, da parte di Joyce, va nel senso di una certa operazione sulla lettera, una lettera pura, disabbonata dall’inconscio transferenziale.  Non è però una lettera completamente scollegata dal legame sociale, perché in quest’operazione sul godimento, per così dire autistico, nella lettera è inclusa una costruzione sintomatica denominata da Lacan l’”Ego di Joyce”, oltre ad alcuni elementi sicuramente diversi riferiti a un Nome per il soggetto.  
Penso di avervi dato un’idea della differenza tra le diverse opzioni che potremmo trovare in Joyce, e potremmo dire che si tratta di diverse scelte sintomatiche. 
Sarebbe importante riuscire a pensare in base al modello di Joyce, per poterlo applicare a casi diversi. Bisognerebbe pensare a queste trasformazioni sulla struttura del sintomo, e pensare il sintomo come un annodamento che si può trasformare, che ogni volta deve o può tener conto di tutta una serie di modalità di godimento, facendo ricorso, per rispondervi, a diversi elementi della struttura. In una dimensione più microscopica, per esempio, in modo più dettagliato, si può vedere come per ogni soggetto, in ciascun momento della sua vita e della sua analisi, si formulino queste diverse modalità di trattamento del godimento.  Nel caso di Joyce si può vedere che c’è tutto un lavoro dei cambiamenti a proposito della lettera, ma ci sono anche modificazioni in rapporto al senso, ci sono operazioni su una struttura che possiamo chiamare l’Ego, e ci sono tutte le operazioni che hanno rapporto con la  denominazione.
Nel Seminario XXIII c’è una questione importante, una novità, che ci permette di pensare la dimensione del godimento fissato alla lettera in rapporto al godimento supplementare, problema introdotto da Lacan nel Seminario XX. Nel Seminario XXIII cominciamo a vedere come la questione del godimento supplementare, legata alla problematica della sessuazione e al godimento dell’Uno, abbia due dimensioni: una è l’infinitizzazione, l’iterazione infinita del godimento dell’Uno, l’altra è la fissazione. Joyce mostra come un soggetto tenti di trovare una soluzione attraverso un’operazione che tiene conto, contemporaneamente, di queste due dimensioni, nella presenza dell’Uno senza l’Altro, per quel che riguarda l’inconscio reale, e per altro verso in rapporto alla diversa operazione che la denominazione.  
È un altro modo d’integrare l’operazione dell’Uno del godimento, dove paradossalmente si presuppone la possibilità di una supplenza del legame sociale. Su questo rischio qualcosa: è un’ipotesi che formulo io. Penso che nella denominazione ci sia una sorta di stabilizzazione tra la dimensione dell’Uno radicale, profondamente autistica, di fissazione del godimento, ma che per l’appunto questa stabilizzazione è inclusa, attraverso l’operazione di denominazione, in un legame sociale di supplenza. Per questo mi sembra che nell’analisi che Lacan fa della soluzione sintomatica di Joyce, bisogna poter distinguere due dimensioni profondamente diverse del suo sintomo. Da un lato c’è la dimensione megalomane dell’Ego joyciano, quella che Lacan descrive col termine di “sgabello”, ma c’è anche un rapporto con il nome di Joyce, con il Nome stesso: l’ipotesi che arrischio è che la denominazione assunta dal soggetto ha un rapporto con il consenso. Le premesse di quest’idea si possano trovare nel caso di Schreber, dove c’è tutta una dimensione di spinta alla donna, già pensata da Freud come un versante megalomane di Schreber, che implica però anche un consenso: il soggetto psicotico si abitua all’idea di essere un oggetto. Inizialmente Schreber contrasta l’idea di essere un oggetto di godimento per l’Altro. Da un lato lotta disperatamente, si affanna, si sforza in questa dimensione, ma da un altro lato il soggetto trova una certa pacificazione nel consentire a questa posizione. Nel consenso ci sono due cose che non sono sullo stesso piano: possiamo vedere da un lato, l’oggetto, quello che il soggetto sarebbe per l’Altro, ma dall’altro lato – credo che Lacan abbia insistito su questo punto – c’è l’operazione significante stessa, dove è in gioco il significante stesso della donna di Dio, che non è esattamente un oggetto ma è un significante. Crediamo quindi che anche Schreber acconsenta, accetti un significante che denomina. Nel caso di Schreber la denominazione denomina un godimento del soggetto. 
Il soggetto assume il Nome sempre in rapporto a un Altro. Un Nome presuppone sempre un Altro, anche se su un piano diverso che non nella presupposizione dell’inconscio transferenziale. Se c’è un Nome, un nome di godimento, è implicata una dimensione di un Altro, per quanto minima.
Se veramente pensiamo che la supplenza possa produrre qualcosa sul piano del consenso, la  denominazione opera a un livello fondamentale nella psicosi, un livello che potremmo descrivere come preclusione del godimento stesso del soggetto, alludo al fatto che questa modalità essenziale di far esistere un Altro non è tuttavia in rapporto con l’inconscio transferenziale. 
Un caso abbastanza noto di un cosiddetto autistico, Daniel Tammet, spiega qualcosa di paradossale che mi ha fatto riflettere. Anche se la dimensione della lettera che denomina un godimento autistico del soggetto può essere pensata in opposizione a un Altro, si potrebbe tuttavia pensare a diverse gradazioni d’inesistenza: Daniel Tammet racconta che quando era bambino provava sofferenza quando si accorgeva che la lingua degli altri non nominava nulla della sua sofferenza. Sentiva allora il bisogno di inventare una lingua costruita a partire da esperienze corporee, vale a dire da eventi di corpo. Spiega però, in modo molto interessante, che da quando sentiva di aver trovato dei significanti adatti per denominare questo godimento, cominciava a non sentirsi più solo. Questo è straordinario perché mostra come anche un soggetto che si dice autistico – considerando tutto quello che può esservi di problematico nella definizione di “autistico” – soffra di sentirsi solo. In particolare, comincia a sentirsi meno solo dal momento in cui riesce a costruire una lalangue, questo mi ha fatto pensare come in un certo qual modo la denominazione del godimento sia, anche se difficile da pensare, una supplenza di un legame sociale carente. Il problema è come pensare queste differenti operazioni sul sintomo, al di là delle differenze strutturali cui siamo abituati.
L’insegnamento del Seminario XXIII, al di là della psicosi, vale per qualsiasi analisi: è la constatazione dell’impossibilità di trovare una soluzione all’opacità del godimento soltanto attraverso il senso. Bisogna inoltre tener conto di operazioni del soggetto che, restando fedeli alla struttura fondamentale del sintomo, si modificano per tentare di rispondere alle questioni che il godimento, nella sua opacità, continua a proporre al soggetto. 
Possiamo egualmente dire che il sintomo, nella sua struttura iniziale, non può dare una risposta nella misura in cui è troppo orientato alla soluzione del godimento attraverso il senso. Se l’idea di una traversata del fantasma continua ad avere per noi una relativa validità, credo possiamo pensarla però in una prospettiva diversa. Credo che si possa dare una risposta diversa alla questione del godimento, diversa da quella del senso: al di là del fantasma soggiacente a un sintomo, orientato nella ricerca di un senso, e al di là di quel che è fuori senso, si può dare un valore nuovo alla lettera inclusa nel godimento. Questa lettera, inclusa nel godimento da sempre, richiede un nuovo uso. Questa lettera del sintomo non può essere trattata attraverso il senso, esige un trattamento diverso. 
All’effetto attraverso il senso, di diritto primario, si aggiunge un effetto di diritto secondario che sia paradossalmente capace di mettere a frutto il godimento autistico attraverso la denominazione, costruendo un legame sociale, per quanto fragile per ragioni di struttura, giacché l’Altro non esiste. 
Mi riferisco ora a un caso a partire da un significante costruito tra i due livelli che sono quello de la langue, come elemento traumatico per il soggetto nella sua singolarità e, al tempo stesso, quello che diviene la lingua, nel suo uso familiare. 
Voglio aggiungere qualcosa che ho omesso quando ho detto che occorre distinguere il sintomo di Joyce dalla dimensione megalomane, dalla dimensione di pura denominazione. Ho tralasciato di dire che c’è una distinzione utile che può orientarci: la dimensione megalomane ha rapporto con l’attributo, con l’aggettivo, mentre il nome in quanto tale è una cosa diversa. Si può prendere un significante come un nome o come un aggettivo, e si può tentare di pensare che ciò è in relazione con trattamenti diversi del godimento.
È un caso che ho costruito a partire da un significante in spagnolo. La parola in spagnolo è “sin verguenza”: senza vergogna, svergognato, sfrontato, sfacciato, crapulone, illimitatamente avido, che non si nega nessun piacere, neppure i più osceni. Questa parola contiene un equivoco per il soggetto in questione perché si tratta di un uomo il cui sintomo importante è la “vergogna”, che gli pone tutta una serie di problemi: da giovane, per esempio, lo ostacolava quando cercava di abbordare delle donne, perché aveva vergogna di porsi come uomo di fronte ad una donna. L’analisi ha fatto emergere che questo aveva un rapporto col fatto che lui aveva vergogna del padre.
In un passaggio dell’analisi, il soggetto si è reso conto che il suo rapporto con il significante della vergogna era contrassegnato da una grande ambiguità: si trovava in situazioni in cui si rendeva conto di aver superato i limiti e lui, spesso piuttosto inibito poiché provava vergogna, si trovava a fare come degli acting out che gli davano buoni motivi, dopo, di vergognarsi davvero.   
Ad un certo punto nell’analisi, a partire da questi acting out si è prodotta una sorta di allucinazione, ma non come un’allucinazione che viene dall’esterno, bensì come una sensazione interiore, la sonorizzazione di un pensiero che era, allo stesso tempo, un ricordo: era la voce del nonno che diceva, e quasi gridava, “svergognato”. Questa parola del nonno aveva rapporto con una particolarità della storia familiare. Il nonno diceva di non avere un padre. Perché? Come questo analizzante ha potuto poi ricostruire, senza sapere in quale momento della sua vita abbia cominciato a prenderne coscienza, il padre del nonno aveva fatto qualcosa di talmente tanto vergognoso da giustificare che il nonno dicesse che non era più suo padre. D’altro canto, anche il nonno materno aveva fatto a sua volta qualcosa di vergognoso. La madre aveva mantenuto un legame con il nonno, con il proprio padre, ma  non gli rivolgeva quasi mai rivolgeva la parola. Bisogna aggiungere che questo nonno era sordo. Il  significante “svergognato” è una voce del Super-Io che cade nel punto di mancanza del padre, il quale, attraverso una struttura paradossale, aveva prodotto nel soggetto effetti contraddittori: da un lato il soggetto aveva vergogna del padre, e aveva vergogna di essere uomo, ma dall’altro lato non poteva impedirsi di comportarsi in modo vergognoso.  
Penso che nell’analisi, in un caso come questo, si tratti di introdurre una dimensione di non senso tra le due tendenze contraddittorie rispetto al senso, per permettere la scelta di un “senza vergogna”, e potersi denominare come qualcuno che non abbia vergogna, senza per questo essere “crapulone”. Si tratta quindi di spogliare questo significante del suo peso di aggettivo, di attributo, e di assumerlo come un nome di godimento a partire dal quale il soggetto sia in grado di riconoscere, in una serie di situazioni, di avere sempre una possibilità di scelta, di poter mettere in questione la vergogna e di poter rinunciare alle azioni compulsive che alimentano la vergogna. Il soggetto scopre allora che “senza vergogna” era un significante de lalingua, e che si trovava sempre in scacco nel tentativo di dare un senso a questo elemento de lalingua attraverso il fantasma. Scopre poi di mettere a profitto il corpo e gli atti per dare un senso a questa immaginazione superegoica. Direi che qui qualcosa passa dell’aggettivo superegoico “crapulone”. Tale aggettivo non dice niente alla dimensione che il soggetto mette a profitto per costruire un nuovo modo di presentarsi all’Altro, ma abbiamo detto che per tener conto della dimensione del sintomo come plurale non c’è soltanto l’aspetto della denominazione, occorre tener conto di altri aspetti del godimento: c’è la vergogna di essere uomo e di presentarsi come uomo a una donna, che paradossalmente si traduceva in situazioni in cui superava i limiti, per esempio situazioni in cui si era trovato ad essere infedele alla donna con cui stava in quel momento. Era la vergogna di presentarsi come uomo per una donna a portarlo a trovare una soluzione nella ripetizione, tentando incontri con altre. Questo inoltre alimentava la difficoltà di presentarsi come uomo per una donna. C’è quindi il problema di che cosa fare per cercare di situare la propria posizione in relazione alla sessuazione. Questo prende per lui il verso di consentire a essere denominato uomo da una donna, di consentire cioè, senza vergogna, a essere denominato uomo “per” e “da” una donna: questa l’operazione stabilizza in lui quel che era sempre attivo per via dello scacco al padre. L’impossibilità di consentire di essere l’uomo di una donna nel momento in cui superava i limiti produceva infatti una femminilizzazione immaginaria, fenomeno che risultava enigmatico. Di un uomo che accede a più donne si dice infatti normalmente che è piuttosto maschile ma, come J.-A. Miller diceva nel suo corso l’anno scorso, gli effetti perturbatori del godimento supplementare non si trovano solo nelle donne ma, per un uomo, negli effetti di un’eccessiva messa in gioco del godimento fallico. 
Questo era collegato in un altro modo sintomatico al problema del padre: la vergogna del padre non era soltanto la vergogna che il padre provocava in lui, ma veniva da una confessione che il padre gli aveva fatto quando era bambino. Il padre gli aveva detto di avere avuto un figlio prima di lui, scopriva dunque di avere fratello maggiore, e gli aveva confidato che dopo questo primo figlio avrebbe voluto una femmina. Se lui fosse stato una donna si sarebbe chiamato Laura. Sentiva dunque che una parte dell’amore del padre si rivolgeva a una femmina, e che se voleva essere amato da lui doveva esserlo come una femmina. Aveva vergogna del padre, ma aveva anche vergogna di riconoscere che, in un certo qual modo, godeva di essere amato non soltanto come un bambino ma come una femmina. 
Per questo motivo il fatto di consentire di portare il nome di un uomo come nome di godimento per una donna per questo paziente è una sorta di cessione di godimento, ma al tempo stesso gli permette, a partire da questo, di smettere di alimentare, di nutrire, la macchina che produce vergogna. Credo che possiamo vedere in questo caso diverse trasformazioni in analisi a partire dalla lettera di godimento, dove si vede che a partire da una rinuncia alla via del senso, la lettera può essere pensata diversamente e può essere messa a profitto in una diversa operazione. Quest’uomo può presentarsi come uomo per una donna. Allo stesso tempo valorizza i suoi sforzi e i suoi tentativi per riuscire ad avere buoni risultati nel campo professionale, dove finalmente si presenta all’Altro senza vergogna, anche se sa di trovarsi sempre in un certo qual modo di fronte alla risonanza di questo significante, nome per lui di un godimento di cui deve sempre tuttavia far qualcosa. È però qualcosa di cui può assumersi la responsabilità in ogni momento della sua vita. Giustamente, possiamo aggiungere, perché questo significante nomina qualcosa della lingua dell’inconscio reale di quest’uomo, e avrà sempre delle risonanze. Il senso non è qualcosa che viene esclusivamente dall’Altro: il soggetto può farne la propria lettura e assumersene la responsabilità.

Eric Berenguer
Trascrizione di Giuliana Carrino
Revisione di Giuseppe Perfetto

mercoledì 3 ottobre 2012

IL TEMPO DELLA CRISI E LA POLITICA DELL'INCONSCIO


SEZIONE CLINICA DI  MILANO 2012-2013


PROGRAMMA

“Il tempo della crisi e la politica dell’inconscio”

Testo di riferimento: 
Jacques Lacan, Television

SEMINARIO FONDAMENTALE

15 dicembre 2012
Docente invitato: Anne Lysy
Caso clinico presentato da:  Giovanna Di Giovanni
Coordina:  Marco Focchi

2 febbraio 2013
Docente invitato: Nassia Linardou
Caso clinico presentato da:  Alberto Visini
Coordina: Fabio Galimberti

16 marzo  2013
Docente invitato: Alfredo Zenoni
Caso clinico presentato da:  Pasquale Indulgenza
Coordina: Luisella Brusa
13 aprile 2013
Docente invitato: Antoni Vicens
Caso clinico presentato da:  Adele Succetti
Coordina: Domenico Cosenza

21 settembre 2013
Docente invitato: Laure Naveau
Caso clinico presentato da:  Raffaele Calabria
Coordina: Giovanna Di Giovanni

Orari
Seminario teorico: ore 9:30-13:00
Seminario di casi clinici: ore 14:00-16:00







Gruppi di studio
GRUPPO DI STUDIO 1: Corso Introduttivo
Costruzione del caso clinico in psicoanalisi (aperto agli studenti di psicologia)
Date:
12 gennaio 2013
23 febbraio 2013
23 marzo 2013
18 maggio 2013

Docenti: Marco Focchi, Giuliana Kantzà , Domenico Cosenza,
Relatori: Daniele Tonazzo

GRUPPO DI STUDIO 2: Corso di lettura
Lettura di Television
Date
12 gennaio 2013
18 maggio 2013
22 giugno 2013
12 ottobre 2013

Docenti: Domenico Cosenza, Giuliana Kantzà
Relatori: Matteo Bonazzi

GRUPPO DI STUDIO 4: Seminario di casi clinici
La terapia orientata dalla psicoanalisi
Date: 
12 gennaio 2013 
23 febbraio 2013
23 marzo 2013
22 giugno 2013
12 ottobre 2013

Docenti:  Pietro Bossola e Luisella Brusa 


GRUPPO DI STUDIO 3: 
Parola, lettera, interpretazione
Date 
23 febbraio 2013
23 marzo 2013
18 maggio 2013
22 giugno 2013
12 ottobre 2013

Docenti: Luisella Brusa e Fabio Galimberti







SEMINARI TEMATICI


Lacan e la Cina
Docenti: Matteo Bonazzi (coordina) 
Date
12 gennaio 2013
23 marzo 2013
18 maggio 2013
22 giugno 2013

Orario: 11,30 – 13,00

Il soggetto e gli oggetti della pulsione: alienazione e separazione.
Docenti: Giovanna di Giovanni, Giuseppe Pozzi, Isabella Ramaioli 
Date
12 gennaio 2013
23 febbraio 2013  (intera mattina 9,30-13,00)
23 marzo 2013
Orario:  9,30-11,30

Concettualizzazioni e casi della pratica lacaniana al Cecli
Docenti: Donata Roma e Alberto Visini
Date
18 maggio 2013
22 giugno 2013
12 ottobre 2013 (intera mattina 9,30-13,00)
Orario: 9,30-11,30


domenica 2 settembre 2012

Sulla scuola e sul concorso per dirigerla III


Al Sottosegretario di Stato
Dott. Marco Rossi Doria


Faccio seguito di nuovo con una raccolta di ulteriori osservazioni che destino, come le precedenti, al luogo che ritengo essere il più consono ad una lettura ancor più che ad una risposta: la lettura qui, ritengo sia già risposta.
Mi inoltro con un termine: DISINNESCATO! …è la parola che più mi evoca il meccanismo del concorso per dirigenti scolastici: la cui interruzione, in Lombardia, per quanto brusca, fa pensare ad un taglio reale, non ipotetico, dei suoi possibili obiettivi di deflagrazione sul sistema scolastico che, tale concorso era previsto dovesse avere.
Antiche connessioni tra senso del dovere e principio di piacere hanno condizionato operativamente la gestione di questo concorso con-fondendo sempre più i due concetti in un unico obiettivo : tras-formare la scuola attraverso qualcosa che può sembrare simile ai processi di variazione “genetica” già tentati con l’immissione di progetti con le loro linee guida, che regolamentano “spazi” dell’umano che insindacabilmente, fisiologicamente e soggettivamente presentano come caratteristica propria lo sconfinamento  “oceanico”, da sondare e da interrogare prima ancora che da utilizzare (un ottimo esempio è rappresentato dai progetti di educazione alla sessualità). Progetti come questi hanno mostrato, nel tempo, tutta l’incapacità a spostarsi su un versante che raziocinante non  è per sua natura.Tali progetti, dunque, nel loro improprio quanto inutile raziocinio “a confinamento multiplo”, a seconda degli indirizzi con cui si presentano,  rivelano il significato e la volontà rampante di un rovesciamento logico riferito alla funzione della scuola : essa non rappresenterebbe in questo caso il luogo-funzione di sapere ma luogo-fabbrica di trasformazione della “materia prima” in  prodotto finito sostituendo in tal modo il compito storico dell’istituzione scolastica per l’infinito nelle sue varietà presentate dall’evoluzione dello studente.  
Per una simile condizione all’interno della scuola sono necessari calchi e stampi dai confini precisi, dai bordi invalicabili a guisa di qualsiasi possibile errore: ogni de-bordaggio è interpretabile come non-sistematico e per questo non funzionante quindi: operatori obbedienti, insegnanti dal sapere pre-confezionato ma soprattutto dirigenti assolutamente allineati e conformi al calco ossia al pensiero unico.
Disegno sottile questo che tuttavia mostra le ragioni di tanto accanimento delle commissioni esaminatrici il cui compito è parso, in una simile ottica, quello del reclutamento dei nuovi dirigenti di fabbrica. Un accanimento che si presenta “a sorpresa” fin dalla prima prova, mostrando un potere sostenuto da formule di insindacabilità ed immunità in ciò che è parso assimilabile ad un “rastrellamento” da parte di un esercito sapientemente guidato-operato da una scuola che ha puntato così le armi in suo potere … contro la scuola. 
Ciò che, in questo contesto, ha fatto sentenza, è la volontà di dominio sull’imprescindibile potere “a tutto pieno” dell’Altro, definito nel suo oggetto di appartenenza “il sapere”.
L’osservanza dimostrata, la cui rigidità, impropria quanto sorprendente in un simile contesto,  rievoca l’osservanza religiosa delle crociate all’insegna dei massacri compiuti nel nome di un imperativo ben più potente politicamente ed economicamente che non sul piano mistico, mostra come, più che un cambiamento, questo concorso sia stato il segnale di avvio per  una “avanzata di Attila” a seguito della quale, il dirottamento successivo della “nave-scuola”, non è riuscito, lasciando terra bruciata e resti: non è il gattopardo generalmente a godere di resti e macerie bensì l’avvoltoio e lo sciacallo.
Un dirottamento tuttavia non orientato all’acquisizione di nuove rotte verso destinazioni altre, (altri saperi, acquisizioni strumentali innovative ecc) bensì impantanato in una strategia di sbarramento al dinamismo dialettico, costretto dall’imperativo di una nuova dirigenza sostitutiva di un sapere dinamico transfattuale con saperi interfattoriali e rispettosi del religioso ossequio al feticcio dell’obbedienza considerata idealmente come plus-valore in un registro che passa non solo attraverso un richiamo al meritocratico ma alla benevolenza divina.  
È proprio in questa logica che è possibile leggere il principio di piacere di chiaro richiamo freudiano che avrebbe guidato la logica di questo concorso. Un principio che mostra anche  il volto politico con cui questo concorso è nato, e, un po’ come in una sorta di adozione con il cambio di gestione governativa, esso continua a mostrare i suoi tratti genetici che faticano a declinarsi nelle condizioni dei passaggi di eredità. 
Un principio di piacere, dunque, che mostra il tentativo ad oltranza di mantenere la propria “pace” sensoriale (o forse semplicemente intellettiva),  ottenuta come condizione politica attraverso la “decapitazione” del “corpo docente”  in un tentativo appunto di raggiungimento della pace definitiva, eliminata la testa dell’ “Altro” pensante e per questo laborioso, è possibile ottenerne un cadavere: esso, si sa, impressiona per la rigorosa quanto innaturale immobilità. Il lavoro che intorno ad esso viene svolto, non porta, in alcun caso, alla sua vivificazione ma è funzionale a mostrare ai vivi il luogo di ciò che vivo non è. Qualcosa quindi di ben diverso da ciò che il desiderio organizza e che si contrappone all’abbattimento pulsionale imposto dal pacifico criterio del piacere. 
Il paradigma qui si propone con un’associazione del principio di piacere legato a questo concorso che ne ha generato la morte stessa come pure la possibile volontà di creazione di una scuola inanimata e meccanicamente rivolta al nulla, in luogo del desiderio che si costruisce sulla mancanza e si orienta, con un certo godimento, verso il superamento di sbarramenti, in linea con la sete di sapere.
Tanto zelo operativo, dunque, non si avvicina al senso hegeliano del lavoro per l’uomo, bensì sembra connotato in una rumorosa parvenza. 
La scuola potrebbe lasciare il posto alla sQuola (nessun sarcasmo, solo un riferimento ed un invito alla lettura di “Q”  di Luther Blissett, ed al mantenimento della memoria storica e della sua analisi che consente al meccanismo della parola di continuare ad essere “letta” e quindi ascoltata  differenziando l’uomo da “altro”. 
Alle nuove leve, per mancanza di esperienza ma soprattutto, in assenza di un sapere componibile attraverso  dati a cui si può accedere solo attraverso l’elaborazione di un passaggio esperienziale nei fatti (davvero calzante ancora il riferimento a Q di L.B.),  alle nuove leve, dunque, spinte più dal complesso di inferiorità ancor più che dal desiderio meritocratico di ascesa sociale, di fronte alla nomina “in su” a dirigente, non resta che dirigere la propria obbedienza, in assenza di modelli di pensiero altro. 
Tendo a citare l’esperienza come elemento che consolida forme di coraggio in grado di affrontare gestioni complesse come il sistema scolastico, il coraggio soprattutto di tutelare quanto già storicamente definito, come i criteri di civiltà di un paese, che poco si allineano con la fiducia collettiva prestata a baluardi ed insegne, politiche o religiose che siano, poiché, si sa, la fiducia è sempre cieca ed il compito della scuola è di rendere visibile ciò che l’inesperienza per gli alunni, il velo per insegnanti ed un fitto drappo per i dirigenti, nascondono. 
Il coraggio quindi di tutelare il negoziato storico che sancisce il patto sociale: esso è significativo di una condizione di adultità e di identità che si discosta elettivamente dall’infantile ed inevoluta presa di posizione utilitaristica e corrosiva troppo spesso confusa e rimaneggiata come Forza e Coraggio nel suo versante più religioso o Forza … e quant’altro in quello laico.
Il coraggio di difendere le fondamenta minate del patto sociale appartiene al richiamo all’interesse pubblico, diversamente dall’intraprendenza di coloro che, nominati a tutelare l’interesse pubblico, si appellano a trattative create ex-novo, in un tentativo di parziale ri-definizione rispetto a quanto stabilito dalla sentenza del Tribunale Regionale, come nel caso della Lombardia.
Il costante richiamo a forme di emergenza a seguito della sentenza di annullamento delle prove scritte da parte del TAR Lombardia del suddetto concorso, soprattutto da parte delle amministrazioni implicate in questo annullamento che definisce altresì il fallimento di quanto è stato operativamente attuato come di coloro che ne hanno gestito la regia, impone ineluttabilmente alcune riflessioni.
Emergenza è tutto ciò che si riferisce allo stato straordinario che  “emerge” e che le cose e le situazioni assumono a seguito di eventi  altrettanto straordinari.
L’assenza di personale dirigente nelle scuole non definisce di per sé alcuno stato straordinario a fronte dei dati degli ultimi anni. Periodo, questo,  in cui le scuole sono state dirette, così mi riferiscono, da “reggenti”. Si sarebbe dovuto trattare di un operazione di componimento delle dirigenze, assenti in alcuni casi da anni,  con immissioni di personale a superamento del concorso e relativa graduatoria. La ripetitiva operazione eliminatoria dei candidati avrebbe di gran lunga minato e  lasciato completamente assente ogni possibilità di elenco di graduatoria cui attingere.
Così composto il quadro, pare difficile pensare all’emergenza evocata dall’ amministrazione  come a qualcosa che possa appartenere all’interesse dell’ordine pubblico, rimbalzando così la  responsabilità di quanto avvenuto, su coloro che hanno richiesto una equa lettura dei fatti. 
La visione di un quadro deve avvenire alla giusta distanza e l’immagine che sembra lasciare questo quadro mostra il bisogno di un restauro laddove le note di colore che lo valorizzano, identificabili nel riconoscimento di una responsabilità, sembrano via via scomparire dietro il velo delle dichiarazioni. 
Il richiamo alla responsabilità di una mancata tutela dell’interesse pubblico, così mirato alla quota-parte della scuola che chiama a sua difesa l’uso delle regole, delle norme legalmente riconosciute, mostra il tentativo di salvaguardare e rinnovare la pace dorata quanto inanimata, ben più che la tutela dell’interesse pubblico per  il quale, non un annullamento delle norme bensì spiegazioni a risarcimento degli errori svolti , eviterebbero una destabilizzazione del legame che fa dell’interesse  qualcosa di definibile come pubblico.
Straordinario è quindi il richiamo dell’emergenza da parte delle amministrazioni che ben poco hanno “vegliato” sulla gestione del bene pubblico. 
Emergenza forse è l’incalzante richiamo alle responsabilità che gli incaricati preposti, devono affrontare a risoluzione o risarcimento di un precipitare nel mare fangoso di un pasticcio che proprio il senso del dovere pubblico avrebbe evitato.  
È proprio la Lombardia, in un concorso pubblico che per la prima volta ha visto la “vivisezione” del corpo-Stato in una suddivisione nei vari micro-sistemi regionali, che, a detta di molti, sarebbe stata funzionale ad un rigoroso controllo sulle prevaricazioni preferenziali, collaborazionismi e “scelte di razza”, è proprio la Lombardia dunque ad avere definitivamente “tagliato la testa ad un toro” fin troppo d’assalto per fini così onesti, fin troppo in corsa da far pensare più alla presa che alla difesa di una roccaforte, la scuola, che, come ho già ribadito in precedenti mie osservazioni, per sua natura, solo la parola riesce ad espugnare.
È interessante osservare come proprio la Lombardia, con il governatorato degli ultimi anni, abbia operato, e senza colpo ferire, una trasformazione radicale nell’altro grande pilastro istituzionale: la sanità. Un cambiamento che ha stabilito una sostituzione logico-strategica di ciò che simbolicamente, filosoficamente e storicamente è sempre stato inteso con il termine “salute” con ciò che, in termini reali, l’Istituzione Sanità in generale, e lombarda in particolare, strumentalmente attraverso il mondo medico definisce come  l’ideale di salute.
La trasformazione del mondo medico-sanitario, è avvenuta nel tempo, praticamente senza colpo ferire, ma,  lasciando parecchi corpi mutilati o fors’anche soppressi nel nome di un sistema autoreferenziale totalmente avulso dall’unico movimento possibile che dia corpo e vita al concetto di salute e del suo “star bene”: la capacità medica di garantire un  senso a ciò che ogni paziente chiama sofferenza e che si definisce come una mancanza e non certo il fuori senso di un più di salute senza limiti. L’operazione sulla sanità è stata ampiamente elaborata ma soprattutto garantita con un by-passaggio da parte di un mondo medico che, ipertrofico nel suo rigoroso rispetto del linguaggio manualistico, si mostra  preoccupato  di stabilire un ovvio-fare comunque ed in qualsiasi situazione, in luogo del saper-fare, ben più intellettualmente laborioso.
 L’identificazione preconfezionata di risposte ha trasformato il saper fare medico in risposte prive di ascolto della domanda. Risposte quindi non garantite dalla capacità critico-intellettuale di riconoscere e distinguere tra sofferenza e non. Risposte comunque, ad “eventuale” copertura di ciò che un semplice lamento annoiato potrebbe produrre. Nel campo del disagio e della malattia psichica,  il mondo medico ha creato sapientemente l’idea di un combattimento “attivo” contro ansia, tensione, noia, di cui si parla continuamente, forse anche per non dover nominare la reale sofferenza di cui molte collettività sono pervase. Nella scuola, “il combattimento” si muove intorno a significanti come bullismo, educazione sessuale, volontariato, ecc…, spostando l’attenzione dalle sue reali ragioni d’essere.

Elsa Forner

Paderno Dugnano, 25 agosto 2012.

sabato 14 luglio 2012

Sulla Scuola e sul concorso per dirigerla II


Al Sottosegretario di Stato
Dott. Marco Rossi Doria
Faccio seguito al mio primo scritto inviato alla Sua persona  in data 6 maggio 2012, con questo nuovo che raccoglie recenti riflessioni di coda, che il concorso per dirigenti scolastici e le caratteristiche fenomenologiche che ha assunto e di cui vengo a conoscenza, mi spingono a sviluppare.
La posizione assunta dalla “popolazione” di docenti  esclusi dal conseguimento delle prove orali, soprattutto dopo l’accesso ai loro scritti ed averli quindi riesaminati, ha via via rivelato,  una radicale trasformazione di pensiero sul merito, categoria di per sé astratta, e sull’ingranaggio meritocratico, tutt’altro che astratto ed ascrivibile all’insieme di norme decretate di volta in volta ex novo dai rappresentanti dell’ordine emissario del momento.
In particolare, l’iniziale sgomento, il cui peso paralizzante aveva assunto le forme di un silenzio assordante, di un vuoto dal peso schiacciante, di un urlo munchano senza suono, ha trovato la propria via d’accesso al senso, in una logica resistente al fallimento mortifero: proprio il rientrare in contatto con i propri elaborati restituisce agli autori ciò che significa elaborare, con un giusto peso e la parola per dirlo. 
Molti docenti, anche in una rilettura di riscontro à plus yeux, che ha accreditato loro il valore ottimale del lavoro esposto, hanno avuto conferma dell’intenzionale ambivalenza giocata dagli effetti del lavoro della commissione: il taglio eliminatorio che desse corpo al merito attraverso un’idea utilitaristica del rifiuto, ha finito invece per togliere definitivamente il velo alla reale strategia operata.
Proprio l’accesso e la rilettura dei singoli scritti, richiesti in massa dai docenti “bocciati”, spinti dal desiderio rivelatorio di una verità altra, oltre la barriera del voto valutativo, ha maturato la conferma di ciò che a loro è stato comunicato : un rifiuto sapientemente subliminato all’interno dell’ingranaggio concorsuale : il rifiuto a leggere, il rifiuto a comprendere e, soprattutto, il rifiuto ad apprendere dalle varie “esperienze”in quei testi  elaborate, condizione questa di cui, già nel mio scritto a Lei inviato, avevo fatto riferimento. 
In altre parole, ciò che finora la scuola ha sempre adottato come oggetto di lavoro, il sapere ed il linguaggio per tradurlo, definirlo e sapervi attingere, non è ciò che è stato adottato dalle commissioni esaminatrici : esse lo hanno rifiutato.
In un’ipotesi immaginaria, è come se il significante “commissario/a”, ed il suo identificarvisi, da parte dei soggetti preposti, avesse imposto un regime disciplinare tuttavia indisciplinato ovvero, rivolto a chiunque, alla massa-docente, anche a coloro che, proprio dalle Università, hanno conseguito riconoscimenti “di sapere”, così conferiti dalle stesse facoltà. 
Non si tratta di riconoscimenti  che la Commissione può individuare nell’elenco istituzionale dei titoli dei candidati bensì, come si conviene alle onorificenze, sono visibili solo attraverso una sapiente lettura dei compiti.
Bastava saperli leggere.
L’impressione che ne è sortita, invece, è stato un movimento numerico valutativo che molto ricorda la logica di un altro significante in auge al momento:  “SPREAD”. 
La sua etimologia non ha origini greche né latine, sul piano linguistico. Lo spread segue ed insegue persecutoriamente un suo significato attraverso la grammatica numerica ed il suo discorso è il grafico. Esso decide ora del bene e del male sociale ed economico di tutti gli stati europei. Esso decide se il popolo greco apparterrà o no alla comunità Europa che, sul piano linguistico, dialettico e filosofico, i greci hanno generato.
Decapitare la genitorialità presuppone un’analisi prospettica sugli effetti de-generativi che possono derivarne, con buona pace delle ipotesi progressiste e futuriste (progresso e civiltà sono spesso pensati con il medesimo significato e dunque confusi come sinonimi) e, la richiesta evidenziata alle prove orali del concorso per dirigenti scolastici di mostrare un sapere onnisciente e nozionistico sul modello del data-base, funzionale ad uno spread scolastico e come tale de-umanizzato, mostra non tanto l’eliminazione di docenti che non sanno, quanto il rifiuto persecutorio del loro sapere umanizzante, contrassegnato dal fenomeno dell’esperienza e, dunque, non arginabile numericamente.
Tale meccanismo ha finito per mostrare un ammanco nel bilancio delle risorse, che nella scuola si chiamano “risorse umane” 
Inarginabile, tuttavia, sembra essere stato anche il desiderio di una lettura propria e non imposta, evocando capacità inalienabili, da parte del nutrito numero dei docenti che hanno avuto valutazione negativa ai propri  scritti.
Gli autori degli elaborati eliminati, non hanno trovato risposta alla propria esclusione. La risposta ha giocato un ruolo di assenza,  pur se in modo molto ben articolato. 
L’identificazione di una NON risposta all’esclusione e le modalità assunte per articolarla, conducono,  in modo assolutamente speculare, alla mancanza di risposta che spieghi l’ammissione.
In altre parole coloro che sono stati esclusi, esaminati i propri scritti, sono consapevoli dell’evidente mancanza di errore così come coloro che sono stati ammessi, pur felici di esserlo, non ne comprendono le ragioni, senz’altro validissime, ma ad essi ignote. 
Gli esclusi e gli ammessi non sanno perché sono stati posti in un di qua o in un di là del numero 21.
Anche gli esami orali, con un curioso sistema di “pesca” degli interrogativi da porre ai candidati lombardi, dopo avere registrato numeri davvero elevati di eliminati per essere l’ultima fase di un percorso così straordinario,  ha posto in essere non tanto la natura ittica dei candidati, bensì la consapevolezza che si sia trattato sì di un percorso ad ostacoli, ma di natura non correlata al sistema “scuola”. Alcuni di loro avevano ottenuto punteggi elevati agli scritti (oscillanti da 25, a 28).
In Lombardia questa modalità concorsuale, ha posto in evidenza una lettura inequivocabile dell’unico oggetto di concorso, cui il sistema scuola deve assoggettarsi: il dominio sulla scuola stessa. Ciò che rende inequivocabile tale lettura, sono gli eccessi manifestati dalle commissioni esaminatrici nel rivelare tale natura. Condizione questa che consente di intravedere uno squilibrio oggettivo tra le finalità del concorso e la funzione energicamente espulsiva assunta dalle commissioni.
La notizia che, in Lombardia, un ingente numero di insegnanti, circa un centinaio ma forse molti di più, sia ricorso al T.A.R., ha consegnato l’immagine  inconfutabile di un  disastroso effetto  fallimentare della strategia medesima.
Tale rapporto numerico indicativo di un sociale e del suo muoversi, contrapposto alla rigidità numerico-valutativa utilizzata, pare rappresentare il risultato-boomerang sortito dalle modalità adottate dalle commissioni esaminatrici, così ossessivamente intese a sviluppare, in modo allargato, il senso di fallimento tra i docenti.
Questa situazione ha   evidenziato due aspetti significativi. 
Il primo riguarda il riscontro dei docenti, sapiente per esperienza e non per diritto divino, capace di ricondizionare gli effetti più frustranti  nella formulazione di un linguaggio a loro proprio, comune, non autistico,  come, al contrario, un predominio individualistico presuppone. 
Il secondo aspetto, del tutto parallelo al primo, in ordine di rilevanza , ma decisamente opposto sul piano delle significanze, è proprio la condizione di eccessiva ossessività con cui le commissioni sono state identificate e le immagini ossidanti che ha sortito,  di un vuoto dialettico ma soprattutto di pensiero unicamente orientato ai dettami del dominio.
Le impreviste reazioni dei commissari fronteggiati da ostacoli del tutto inaspettati come un ricorso in massa e di cui rilevo e leggo alcune testimonianze, chiariscono, dal lato organizzativo del concorso, una totale assenza di adesione al sistema che faccia legame, come nelle aree del sociale dovrebbe essere, mostrando, a tratti, produzioni individualistiche  che fanno difetto con qualsiasi sistema. 
Il dominio sulla scuola e non della scuola riporta ad un significato sociale-educativo storicamente interessante, soprattutto nel’attuale momento politico in cui mentre si “operano” i tagli alla scuola pubblica, con le regole che sottostanno al sistema di distribuzione del danaro pubblico, si finanziano le scuole private, che sappiamo essere per lo più di stampo cattolico.
C’è da chiedersi se l’ipotesi di un processo di de-umanizzazione della scuola pubblica, almeno per quanto riguarda quella Lombarda, così “elettivamente” predisposta in una posizione geograficamente “alta”, non sia intesa a favorire un’accesso privilegiato al contatto con Dio o al contratto con l’Essere, il Verbo, appunto, nel miracoloso tentativo di trasformare l’oggetto simbolico della scuola (essere e verbo ma assolutamente con lettera minuscola) in materia.
È curioso osservare come le ultime legislazioni in materia di scuola, precedenti a quella attuale, siano state promosse da rappresentanze femminili. È  proprio l’accezione cattolica  a suggerire  come il femminile sia luogo prediletto e simbolo di incondizionato amore.
Curioso anche osservare come  questo concorso si sia rivelato una sorta di territorio di caccia che ben poco dell’amore per la scuola riferisce. Esso sembra avere assunto l’onere di una crociata che, anche nelle declinazioni al femminile,  pare identificarsi  in una battaglia dall’ordine fallico,  testimoniando così quanto quest’ultimo e la sua metafora siano andati perduti, come pure, forse,  la metafora cui il termine scuola rimanda.
Elsa Forner

giovedì 7 giugno 2012




Sulla scuola e sul concorso per dirigerla


Riceviamo e volentieri pubblichiamo la seguente testimonianza

Sono iscritta da diversi anni alla Sezione Clinica dell'Istituto Freudiano. Come clinico dell'area “psico”, mi occupo di disagio, riconducibile a  tutto ciò che di mentale mi viene portato sotto forma di domanda, spesso si tratta di domanda ad essere come le testimonianze lacaniane mi hanno insegnato. Studio le cause sintomatiche, le più profonde per quanto sia possibile, una per una, perché ogni soggetto possa trovare la propria risposta alla sua domanda (non sono quindi i manuali i miei maestri, ma, i maestri, sono i miei manuali, da Freud a Lacan e ritorno). Detto questo, un quesito, importante, mi interroga negli ultimi tempi. La sua area è la scuola e la questione si riferisce specificatamente e significativamente ai risultati del concorso per dirigenti scolastici.
Mi interroga, come alla ricerca di una verità dicibile che, tuttavia, questi risultati sembrano ribadire, attraverso formule eliminatorie, e non attraverso il simbolismo ragionato della parola che, in chiave allargata si definisce dialettica.
Tutte le mie conoscenze dell’area scolastica, amici e compagni di lavoro, sono stati “bocciati” alle prove scritte di questo concorso. Davvero un gran numero di persone esperte,  grandi intellettuali, capaci di analisi ad ampio spettro, per i quali l’idea filosofica della scuola al servizio delle risorse umane a cui è rivolta, nel rispetto delle regole vigenti, rimane imprescindibile e non subalterna alla soverchiante normatività talvolta imposta da luoghi comuni, che, in quanto tali, si espandono in modo massificato stabilendo classificazioni dai significati espulsivi e tutt’altro che integrativi.
Eppure, mi interroga proprio l’enorme quantità di esclusi, tutti docenti, che, come coloro che hanno superato la prova preliminare, sono stati sottoposti ad altre due prove scritte le cui tracce, almeno in Lombardia, davano indicazioni imprecise e confusive. Con tali tracce mi chiedo come possa essere stato tanto preciso il criterio di valutazione.
Molti di loro mi hanno raccontato lo svolgimento di questo concorso, peraltro preceduto da due o più anni di studio, ai quali qualcuno ha aggiunto masters costati migliaia di euro, nella prospettiva di prepararsi al meglio per il suo superamento.
La prova preliminare, consistente nella capacità mnemonica di ricordare la giusta risposta nei 100 test in 100 minuti (un minuto a test), selezionati tra 5000 a risposta multipla, aveva già eliminato una percentuale di partecipanti al concorso, oscillante in una media nazionale tra il 70 e l’80%.
Le prove scritte sono state due, della durata di otto ore ciascuna e si sono svolte in due giorni consecutivi. 
L’esclusione dalle prove orali per il mancato superamento delle prove scritte, ha lasciato me, come  tutti coloro che conosco, sgomenti e, soprattutto, ha consegnato alle post-comunicazioni il sospetto che “qualcosa” non abbia funzionato. Questo “qualcosa” certo non è riferito agli scritti degli esclusi,  elaborati secondo schemi e strategie di un certo modo di pensare, pur sempre mantenendo fede all’applicazione della vigente normativa scolastica, materia questa, peraltro, della quale i “bocciati” di mia conoscenza, da anni, so, essere perfetti conoscitori. Per inciso, proprio a queste conoscenze e competenze attingo, sovente, per le mie necessità professionali, guidata dal pensiero che esse stiano a loro, per puro intellettualismo, come il sapere sta alla scienza (non intesa come scientismo). A questo, aggiungo, che un cospicuo numero di presidi, appartenenti al “giro intellettuale” decisamente diverso dal “cerchio magico” ha potuto attingere a tale sapere riferito sia alla normativa che alla gestione istituzionale scolastica. 
Tornando a riflettere su ciò che non ha funzionato, quest’idea si insinua anche in una lettura dei comportamenti tenuti dai commissari durante le prove che è parsa  sottintendere il  loro rapporto con i candidati-docenti in un : noi siamo i “maestri” voi coloro che “non sanno”; ipotesi questa che ha trovato conferma, in seguito, proprio nell’enormità numerica degli esclusi a fronte di tracce dai riferimenti generici e poco precisi,  per le quali, tuttavia, il criterio di valutazione deve essersi svolto con  precisione direi “chirurgica” considerata l’alta percentuale di eliminazione.
Detto ciò, torna quindi il sospetto, condizione questa che,  per definizione, apre sempre ad una verità altra rispetto a quella appena svelata: una sorta di apertura nella direzione di una verità,  meno evidente ma pulsionalmente più pregnante. Nel caso specifico di questo concorso il sospetto si sarebbe diffuso intorno all’idea che si sia trattato di una strategia eliminatoria di una certa categoria di pensiero, una vecchia categoria, il cui pensiero è circolante, va in giro, si dialettizza funzionando quindi come motore costruttivo e creativo a dispetto dell’ipnotico effetto che alcune formule sono, attualmente, in grado di ottenere all’interno di alcuni grandi sistemi pubblici come la scuola. Mi riferisco per esempio agli effetti ottenebranti che un significante come “bullismo” riesce ad ottenere una volta detto.
Parole come questa, segnano tracce, percorsi, agendo un po’ come la propagazione di un virus in un territorio con i suoi devastanti effetti epidemici: essi si scatenano in assenza di un’accurata analisi scientifica in grado di produrne l’antidoto. Nel caso del bullismo per la società, ma in modo particolare per la scuola, l’assenza di un approfondimento storico delle sue condizioni, consente una parziale verità stabilita solo sugli effetti che, come le malattie, spaventano in assenza di risposte pacificanti. Lo sviluppo di risposte-percorsi, assunti come antidoti purificanti, scatenato da un significante fantasmatico come questo, mette in evidenza quale impatto abbia avuto nell’immaginario collettivo che, sempre più privo di domande a riguardo, si ritrova a parlarne e ad operare in un vuoto di senso. Nel caso della parola “bullismo”, con la conseguente “catena significante” organizzata nelle varie tavole rotonde, essa sembra essersi infiltrata nella scuola, cambiandone in parte i connotati, allo stesso modo di un virus nell’organismo. Con la stessa propagazione e forza epidemica, una parola-contenitore come questa, è riuscita a cambiare dall’interno il rapporto scuola-insegnante-alunno ottenendo quanto nessun programma di riforma finora proposto avrebbe mai sperato di ottenere.
Ho trovato curiosa, devo ammettere, l’incidenza di questo “significante padrone” all’interno delle prove in tante regioni italiane, come a dire, il concorso è stato regionale ma ”bullismo” pare una parola in grado di parificare  tutto (e forse anche di pacificare). 
È come se il bullismo fosse ora il soggetto della scuola, lasciando agli alunni il posto di oggetto-matassa da distribuire nei vari percorsi-guida pensati dagli “esperti”, spesso nella logica di un’esclusione dal mondo-scuola. Posizione questa che sembra andare nella direzione opposta al concetto di integrazione, stabilito e rivolto appunto a coloro che sembrano declinati verso forme di disagio talvolta così feroci da confondere.
Il bullismo quindi, anche in queste prove, è andato per la maggiore e, la Lombardia, è parsa in testa alla classifica con un’alta percentuale rappresentativa all’interno della Commissione: qui, la “battaglia” contro il bullismo, costituisce, per una certa area della scuola, un vero e proprio brain-storming operativo che  attraversa ogni ordine e grado istituzionale: poche domande, tante risposte.
Il successo formativo come  anche la filosofia della “Scuola di Napoli” sono elaborazioni lontane anni luce dai profili richiesti dalla commissione lombarda. La funzione prevalente  “pensata” da questa commissione, come da altre, è stata affidata al fenomeno del “bullismo”,  lasciando spazio alla logica mortificante, che poco apre alle condizioni vitali e costruttive, certo molto più faticose e sapienti, che costituiscono la condizione-cardine della Scuola di Napoli. 
Da nessuno dagli enti istituzionali della scuola ho mai sentito parlare della Scuola di Napoli e dei suoi concetti chiave, ma dagli amici intellettuali “bocciati” si, da loro si, come anche da uno dei massimi docenti dell’Istituto freudiano (lacaniano) di Milano, di recente scomparso, che lo scorso anno mi parlò della sua intenzione di aprire un dibattito conoscitivo sulla Scuola di Napoli.
Da anni, molti di questi docenti contribuiscono per meriti di conoscenza soggettiva già sopra accennata, alla gestione delle scuole in cui lavorano, come raramente accade. Sono stati loro a spiegarmi che i Presidi delle scuole sono “Dirigenti Scolastici” ovvero, essi devono gestire l’insieme di regole costitutive di un ente portatore di  metafora: la scuola. È questo assunto che li distingue dai dirigenti aziendali. 
Ciò che attraversa la scuola è il linguaggio: frutto simbolico dell’essere parlante e del suo sapere e, come tale, ben lungi dal gioco di partita doppia del dare-avere. La capacità di perforare l’universo evolutivo per dare accesso alla metafora scolastica,  anche utilizzando la selva oscura dei loro neolinguismi, è la parte sostanziale della sfida e si chiama successo formativo. La sua gestione sta nella combinazione del macrosistema satellitare di regolamenti, operatori e servizi cui la scuola è collegata. Non avrei mai saputo tutto questo senza di loro e tanto mi salva dall’affrontare la scuola con luoghi comuni.
So che i loro dirigenti scolastici ed i loro colleghi, durante questo concorso, hanno stipulato con loro quasi un patto di riconoscenza appoggiandoli, incoraggiandoli con profondo affetto ma soprattutto con una speranza che definirei identificatoria di un ideale di immagine della scuola di cui molti ancora vorrebbero far parte, se gestiti, incoraggiati e diretti da questo tipo di forza e pensiero.
Eliminarli ha lasciato il segno di un “taglio”  che risulta significativo nella direzione di un tipo di scuola pensata per  ordinare un sapere congelato  in un kit d’ordinanza, perché venga celebrato con l’obbedienza e non certo con lo sviluppo del parl-essere. 
Non è casuale il mio riferimento alla Scuola di Napoli. Essa si è costituita su un taglio ben diverso dall’ordine disciplinare intrapreso dalla scuola in generale e da quella Lombarda in particolare. Nata dalla volontà dei suoi fondatori, (tra i quali il Dott. Marco Rossi Doria, attuale Sottosegretario al Ministero della Pubblica Istruzione), ormai conosciuti come “maestri di strada”, di “fare scuola” nei quartieri di Napoli con un altissimo tasso di dispersione scolastica, essa ha raccolto la sfida di “modellare”  forme di sapere entrando nelle maglie di un tessuto sociale ricco di risorse umane evolutive ma scollato dal sistema scolastico. Vi sono entrati impegnandosi nel  rafforzamento di una relazione che facesse da collante tra il sapere già esistente e l'offerta di arricchirlo, senza esercitare alcun potere sull'obbligo scolastico ma obbligandoli all'ascolto empatico di una spinta che disobbedisca all'imperativo di “scendere in campo”, che per definizione è sempre di qualcun altro, per  decidere di “salire la vita”, la propria. 
I “maestri di strada”, nel “trovare il modo” di fare scuola, poco spazio riservano al panorama che generalmente ruota intorno alla valutazione scolastica. L'accordo implicito ma anche esplicitato dall'approvazione del loro progetto da parte delle  Dirigenze Scolastiche del territorio, definisce, come obiettivo massimo, il recupero scolastico della fascia dell'obbligo. Per valutare, qui, è necessario uscire dalle grate che disegnano griglie nelle quali i numeri da....a....“dicono” il valore, per entrare nello spazio aperto della dimensione soggettiva: il chi, ma anche il come, non certo il quanto.
Le posizioni della Scuola di Napoli sono partite da considerazioni riferite al grave disagio social-territoriale di Napoli ma allargano il proprio discorso teorico alle difficoltà comuni a tutto il mondo evolutivo di cui sono responsabili fenomeni come la scomparsa delle figure adulte di riferimento, l’indebolimento di certezze educative, la mancanza di assunzione chiara di responsabilità adulta. Sono contesti questi che ben si discostano dalla possibilità di un’implicazione di formulazioni disciplinari o giudizi valutativi scollegati dal riconoscere le complessità. E sono gli stessi che il mondo docente in generale si trova a fronteggiare. Ciò che fa  riscontro al fondamento della Scuola di Napoli, parte con la domanda “che cosa possiamo fare?”
Questa posizione si apre all’ascolto dell’elevato e molteplice bisogno sociale presente, attraverso un’organizzazione dello spazio-tempo a misura evolutiva, in fuga dall’insuccesso e dalla dispersione. 
Un simile contesto scolastico, ben differisce dal normativo codificare il sapere in risposte unificanti  che respingono il bisogno sociale all’interno di domande mute, con cui la scuola lombarda sembra confrontarsi, proponendo offerte formative sempre più affini ad una contrattualità interistituzionale “stanziata” nelle tavole rotonde di rappresentanza, all’interno delle quali il sapere non prende posto se non come condizione inanimata, morta, decontestualizzata dal sociale che deve assumerlo come proprio. 
La domanda d’apertura della Scuola di Napoli sembra trovare risposta in formule come, tempo di riflessione, riflessione circolare, forte attenzione al linguaggio. La scuola in generale e quella lombarda in modo particolare hanno stabilito, da tempo condizioni valutative che stabiliscono chi, di sapere, deve vivere o perire. É questa l'idea imperante con la quale, i docenti più illuminati che conosco,  devono fare i conti per poter salvaguardare la loro dimensione che include alunni e sapere.   
Le commissioni del  concorso per Dirigenti scolastici, hanno “quantificato” in misura percentuale ammessi e non ammessi attraverso una lettura degli elaborati da cui traspare l'assenza di una tridimensionalità che tenga conto dell'autore, dell'elaborato e del lettore. Una lettura  monoculare quindi, tuttavia garantita da criteri di insindacabilità che rendono onnipotenti commissari e valutazioni: quantificano il grado di sapere di ognuno dei candidati: alcuni “sanno” 19-20, altri 12-15, altri 22-24, altri 13-17. La linea di demarcazione è rappresentata dal numero 21: il suo superamento o meno consente l'ammissione.  In effetti, come “sindacare” un simile sistema, è un po' come sindacare su chi vince o chi perde al gioco dei numeri al lotto, in un gioco che tende a negoziare i confini del sapere.

Paderno Dugnano, 5 giugno 2012
Elsa Forner