martedì 29 marzo 2011

Transfert e istituzione


Isabella Ramaioli: Manuel Fernández Blanco vive e lavora a La Coruña, in Spagna. È membro della Escuela Lacaniana de Psicoanalisis, di cui è stato presidente, ed è psicoanalista e psicologo clinico. Lavora nel complesso ospedaliero de La Coruña, ed è fra i fondatori di un Centro di clinica applicata del campo freudiano. 
Si tratta di un Centro, di una clinica di psicoanalisi applicata cui ha dato vita insieme ad altri colleghi più di dieci anni fa. Da quest’ambito, dal lavoro in ospedale,  trae lo spunto e l’esperienza per parlarci del tema di oggi: Transfert e istituzione. Passo la parola a Fernández Blanco.
Manuel Fernández Blanco: Buongiorno. Voglio ringraziare per l’invito  rivoltomi dall’Istituto freudiano, la Sessione clinica di Milano, e per l’occasione che mi offre di lavorare con tutti voi. Mi è stato assegnato un tema cui tengo molto, perché sono uno psicoanalista, esercito nel mio studio, e al tempo stesso lavoro da più di venticinque anni presso l’Unità di salute mentale di un Ospedale, e ho avuto inoltre la fortuna di fondare con altri colleghi la Clinica del Campo freudiano a La Coruña. 
Ho poi partecipato piuttosto attivamente alla creazione dei CPCT in Spagna. Tutto questo mi ha fatto riflettere sulle possibilità e sui limiti della psicoanalisi nelle istituzioni pubbliche, e anche sulla specificità del trattamento psicoanalitico nei nostri centri di psicoanalisi applicata.
Se, nel lavoro di oggi, vogliamo partire dai fondamenti, dobbiamo prendere avvio dalla definizione del transfert. A questo scopo ho suddiviso la mia esposizione in tre parti: 
1- Il transfert nella cura analitica, nel senso in cui un’analista conduce la propria cura nel proprio studio fino alla sua conclusione logica.
2- Il transfert nell’istituzione di salute mentale.
3- Il transfert nei centri di psicoanalisi applicata.
Quando parliamo di transfert, abbiamo una formula scritta da Lacan, l’algoritmo del transfert. È la formula che propone nella Proposta del 9 ottobre del 1967 sullo psicoanalista della scuola
Nessun ingresso in analisi si presenta uguale a un altro. Ma al di là di queste variazioni, c’è una questione comune: tutte le analisi cominciano a partire dal transfert. Perché qualcuno va a incontrare un analista? Perché qualcosa  perturba la routine che manteneva la sua quotidianità. Se c’è un’entrata, è perché  ha avuto luogo un incontro con il reale che non si è potuto riassorbire nel fantasma del soggetto. Ogni entrata in analisi di un soggetto nevrotico – nella psicosi sarebbe diverso – presuppone la rottura della  sicurezza, della continuità fantasmatica. Il fantasma è però la matrice di tutti i significanti che riguardano il soggetto. Ogni volta quindi che c’è una rottura del fantasma, si produce una lacerazione del senso. Il soggetto che ha perso il senso, cerca di ristabilirlo. È questo che porta il soggetto a fare domanda a un analista. Non perché prima non ci fossero sintomi. Non c’è infatti soggetto senza sintomi, perché il sintomo è l’invenzione necessaria di ogni soggetto per fare esistere il rapporto sessuale che non esiste.
Dire che un sintomo è sopportabile significa dire che si sopporta il reale. Significa dire che c’è uno stato del sintomo che si accorda con il fantasma. Il sintomo, in questo caso, parla del successo terapeutico del fantasma, parla di un godimento che può essere addomesticato dal principio di piacere, parla del meccanismo del fantasma che chiude l’inconscio.
Il sintomo analitico è invece come un inciampo non digeribile. Possiamo dire così per qualsiasi sintomo come manifestazione clinica. Il sintomo esprime quindi una contingenza, un incontro che il fantasma non riesce a collocare: è questa la formulazione clinica del sintomo.
Noi psicoanalisti sappiamo che solo non lasciandolo tacere possiamo sostenere la posta in gioco di una cura. Per sostenere una domanda di analisi occorre quindi una prima preinterpretazione del sintomo, necessaria per far capire al soggetto che il sintomo non riguarda soltanto il piano medico. All’inizio c’è il transfert, e non la domanda di analisi. Il transfert implica una preinterpretazione del sintomo da parte del soggetto. Ci sono sintomi che appaiono come senza senso. Il transfert è ciò che permette a questi sintomi senza senso di trovare il proprio complemento nella figura dell’analista. 
A questo scopo il sintomo deve però essere aiutato dall’enigma. In questo senso Miller ha segnalato che le analisi cominciano come le psicosi: vanno dall’enigma all’interpretazione. Il soggetto psicotico, all’esordio della psicosi, soffre di un’esperienza enigmatica: tutto ha senso, un senso che si riferisce a lui, al soggetto, però è un senso enigmatico. Lo psicotico soffre, per così dire, di un eccesso di senso, ogni non-senso viene abolito. Passa una macchina rossa e questo è un messaggio che si rivolge a lui, il semaforo cambia in quel momento e questo gli dice qualcosa. Quanto meno si sa che cosa vuol dire, tanto più si sa che vuol dire qualcosa. In questo senso possiamo dire che ogni analisi comincia come una psicosi, anche se l’enigma e il senso di cui si tratta sono completamente diversi, perché nel caso della psicosi la risposta all’enigma è il delirio, è l’interpretazione delirante, mentre nel caso della nevrosi l’enigma che il sintomo comporta riconduce alla verità rimossa. È quindi necessario un non-senso per entrare in analisi.
Il problema attuale è che per molti soggetti il sintomo si presenta senza enigma, è un sintomo risposta, non è un sintomo domanda. È una delle caratteristiche del soggetto attuale, soggetto con il quale noi psicoanalisti ci troviamo spesso costretti a iniettare senso per rendere possibile un’analisi. Ciò significa che incontriamo sempre meno soggetti che hanno una preinterpretazione del sintomo, ed è attraverso l’incontro con un’analista che può prodursi questa sintomatizzazione. Questo è stato anticipato da Lacan nel suo Seminario sul Transfert, il seminario VIII, nel 1961-62, cinquanta anni fa, nella lezione del 28 novembre del 1962, quasi cinquanta anni fa. Lacan diceva che la colpa aveva i giorni contati, prediceva la fine del senso di colpa perché il senso di colpa è legato al debito simbolico. Solo attraverso la colpa però il soggetto nevrotico sintomatizza il godimento. È una delle difficoltà per esempio che troviamo nel trattamento dell’anoressia, dell’anoressia in senso stretto, non quella che si collega alla bulimia, perché il soggetto si sente colpevole se mangia e non il contrario, e solo la colpa permette di sintomatizzare il godimento.
In questo momento [nel ’62] Lacan ci dice che il destino già non è più niente, è morto, e se il dio del senso è morto, resta solo il non-senso come modalità di essere nel mondo. La disgrazia quindi non si significa come debito da pagare inclusa nel destino, e questo vuol dire che ci deve essere una rottura con la tradizione, con il debito simbolico, il minor senso di colpa si trasforma in angoscia.
Ma l’angoscia non è un sintomo. Ricordiamo Freud in Inibizione, sintomo angoscia. Il caso su cui lavoreremo questo pomeriggio ci permetterà di avanzare su questi problemi, e di dimostrare che l’angoscia ha un ruolo centrale. 
È sempre più difficile sviluppare il significante del transfert, far apparire la domanda all’analista, tentare di restituire uno statuto simbolico al sintomo come condizione necessaria perché si sviluppi la nevrosi di transfert, perché abbia luogo la precipitazione del sintomo, la messa in forma del sintomo. Dire: “Sono ansioso, non dormo bene” non è un sintomo analitico. Un sintomo analitico è qualcosa su cui il soggetto si interroga e che gli permette di iniziare un’analisi. Il sintomo analitico può essere: “Incontro soltanto uomini che mi abbandonano”, e a partire da qui si può cominciare un’analisi. Il sintomo quindi è posto dal paziente, non dall’analista.
Come dice Lacan nella conferenza di Ginevra sul sintomo, bisogna mettere in forma il sintomo prima di affrontarlo, prima di far sdraiare il paziente sul lettino.
Varietà dell’entrata in analisi secondo le strutture cliniche. 
Ci soffermiamo un po’ sulle particolarità dell’entrata in analisi nelle diverse strutture cliniche. È necessario innanzitutto, nei colloqui, preliminari lavorare contro la densità primaria della sofferenza, per concretarla in un sintomo e per  vedere se il soggetto acconsente o no a cercarvi dei significati: questo è la messa in forma del sintomo. Solo se la ricerca si apre a una responsabilizzazione del soggetto, potremo parlare di colloqui preliminari, poiché si possono definire così solo a posteriori.
Nelle nevrosi, in particolare nella nevrosi ossessiva, l’ossessivo di solito non si è reso conto delle proprie ossessioni, o non ha loro dato importanza. L’ossessivo è uno che ragiona, che vuol dare senso a tutto, che vuole che tutto abbia una spiegazione, in modo da poter dormire tranquillo con il desiderio morto. Per questo all’ossessivo piace l’erudizione, ma non è altrettanto chiaro se ama il sapere e se non confonda sapere ed erudizione. Soprattutto il sapere che si trova nelle idee ossessive. Quel che l’ossessivo rifiuta di sapere è dove il sapere si annoda con un godimento intollerabile per soggetto. L’entrata in analisi per l’ossessivo può essere così più dalla parte dalla parte del fantasma che non del sintomo. Pensiamo per esempio all’uomo dei topi: quel che lo porta ad andare in analisi da Freud è l’ossessione sulla tortura dei topi. Entra attraverso il fantasma, non attraverso il sintomo: in lui è il sintomo che si tratta di evidenziare. 
Nell’ossessivo la rappresentazione resta disinvestita, e bisogna stare particolarmente attenti alle cose piccole, che sono molto presenti nell’ossessivo. Dove apparentemente ostenta maggiore indifferenza, è dove invece si sono maggiormente concentrati i suoi interessi. Dove l’ossessivo dice: “Per me è lo stesso”, è proprio dove invece per lui è meno lo stesso.
L’ossessivo tenta di allontanare dal pensiero questi piccoli dettagli per ottenere una coerenza vuota e inservibile. Questioni come l’odio verso il padre nascosto dietro l’idealizzazione, richiedono di venire declinate nella singolarità di ogni soggetto. 
Per l’entrata in analisi nell’isteria, invece, si presenta di solito una difficoltà: l’adesione del soggetto isterico ai drammi passionali, e la trama delle passioni può impedire di vedere le cose chiaramente. Qui non mancano i sintomi dove spesso è implicato il corpo. Il problema è che l’isterica confonde la sofferenza con la castrazione, che viene respinta nel luogo dell’Altro. 
L’isterica ha una mira invidiabile per cogliere la mancanza nell’Altro, perché attraverso questa mancanza si fa oggetto. Nel suo fantasma vuole essere quello che manca all’Altro. Ha quindi bisogno della mancanza dell’Altro per garantire il proprio essere, e in questo percorso perde la particolarità del proprio desiderio.
C’è così un aspetto volubile e cangiante nell’isteria, perché se deve esser quel che manca all’Altro, ciò può portarla a occupare luoghi molto diversi, può  portarla al posto di quel che all’occasione manca. Ciò può dare un certo tono di sperduta all’isteria, di: “Non so quello che voglio”, ed è quel che dice spesso: “Non so quel che voglio, perché voglio essere quello che vuole l’Altro”. Spesso, a far  precipitare l’isteria verso l’analisi è che, nell’impegno di incarnare l’oggetto del desiderio per l’Altro, alla fine può essere piantata in asso dall’Altro, e scoprire che l’Altro desidera senza di lei.
Vorrei menzionare anche la particolarità dell’entrata in analisi nella psicosi. Qui si pone una difficoltà riguardo al transfert, perché c’è sempre il rischio del versante erotomane o paranoico, che l’analista deve evitare. Deve evitarlo svuotando il luogo di un Altro abitato da un godimento senza legge, lasciando un luogo vuoto dove lo psicotico possa depositare il proprio delirio. È una delle forme possibili di transfert nella psicosi: far il segretario dell’alienato, come suggeriva Lacan. La forma più efficace è venire al luogo dell’ideale del soggetto psicotico, ma non lo possiamo scegliere, dipende della contingenza, del fatto che lo psicotico ci ponga in questo luogo. Questo è il luogo migliore nel transfert con uno psicotico, perché lo psicotico, prima dell’esordio della psicosi, era sostenuto dall’ideale materno. L’ideale materno, il desiderio materno, è preliminare  all’introduzione o alla non introduzione del Nome del Padre, ed è anche il luogo in cui il soggetto psicotico si sostiene, spesso per tutta la vita, se non si produce l’incontro con un-padre. Se l’analista viene così a occupare questo luogo, il transfert è più pacificante, e permette un lavoro maggiore.
Nel caso della nevrosi l’entrata in analisi richiede si stabilisca il transfert come complemento al non-senso del sintomo, che viene quindi chiamato a restituire un senso. È quel che Freud chiamava nevrosi di transfert, e si accorse subito che, in alcuni casi,  liberava  della nevrosi comune. Dobbiamo pensare perché. Perché la nevrosi di transfert libera della nevrosi comune?
All’inizio c’è il transfert, e il percorso di un’analisi parte dal transfert. Ci sono due versanti del transfert: uno è lettura, e corrisponde al versante messaggio del sintomo, al voler dire del sintomo, quel che della rimozione fa linguaggio, è quel che si può leggere. Per questo nella postfazione del Seminario XI troviamo che l’inconscio è un testo che si legge.
La sola cosa che si chiede in un’analisi è che si pratichi, che si eserciti l’associazione libera, cosa che è piuttosto difficile, è anzi una della difficoltà maggiori. Non basta esplicitare la regola per far sì che il soggetto la segua. Chiunque eserciti la psicoanalisi conosce questa difficoltà.
In effetti, la vera e propria entrata in analisi avviene quando il soggetto acconsente di lasciarsi andare all’associazione libera. Lo statuto dell’associazione libera cambia man mano nel corso di un’analisi. Se in un primo momento permette la produzione dell’inconscio, nel momento clinico della passe vediamo un’associazione libera che l’inconscio non riesce più ad assoggettare. L’analista quindi propone l’associazione libera, l’analizzante associa e l’analista interpreta. L’analizzante aspetta il senso dall’analista e l’analista, se è lacaniano, non dà molto senso, all’inizio né da un po’ di più per stabilire il transfert, dopo non dà più tanto senso, ed è questa domanda di senso che mantiene il compito analizzante. Questa posizione dell’analista come Altro della domanda ha portato i post-freudiani a confondere ripetizione e transfert,  giacché essi ritenevano che l’analizzante dovesse regredire trasferendo le proprie domande non soddisfate sulla figura dell’analista. La regressione però si produce in effetti soltanto sul piano significante, è la regressione ai significanti della domanda, e non si tratta di chiedere all’analista di accudire al soggetto.
Consideriamo dunque che il sintomo analitico si situa all’incrocio tra verità e reale, che è un sintomo sotto transfert, un transfert che partecipa, come ha sviluppato Jacques-Alain Miller, dello stesso statuto equivoco del sintomo. Già Freud aveva definito il transfert come motore e ostacolo della cura al tempo stesso. Questo statuto equivoco, che è comune al sintomo e al transfert, ci porta a mostrare le vie per cui il sintomo di transfert, come l’ha chiamato Miller nel suo corso Donc, presuppone un particolare modo della pulsione di soddisfarsi nell’analisi e nel transfert. È il motivo per cui dicevo che c’è un versante messaggio nel transfert, il che vuol dire anche nel sintomo, e un versante godimento, un versante libidico del transfert. La pulsione  si soddisfa infatti nell’analisi e nel transfert stesso.
Riferiamoci ora all’algoritmo del transfert: 
                                                                  St-----------------Sq
s (S1, S2,… Sn)
Ho messo in altro la sigla St – nella formula originale la “t” non c’è.  St è il significante del transfert, del sintomo, del sintomo analitico, non cioè semplicemente: “Sto male”, ma il sintomo messo in forma, che si rivolge a un’analista, nel luogo del significante qualunque, per tentare di rispondere alla domanda: “Che cosa vuol dire?”, per rispondere all’enigma che il sintomo porta con sé.
Troviamo qui un’articolazione puramente significante che permette di produrre un effetto di significato sotto la barra, un effetto di sapere supposto presente dei significanti nell’inconscio. È quel che dice Lacan. Ma si tratta di un’articolazione puramente significante, che si sostiene supponendo un soggetto nel sapere dell’inconscio.
Dov’è qui però la soddisfazione pulsionale? Potremmo pensare che risponda al versante sapere del transfert. Se il nevrotico si lamenta della mancanza d’essere, incontra il proprio complemento nell’analista, perché l’analizzante trasferisce all’analista il godimento che abita nel cuore del sintomo, che è l’elemento più particolare del soggetto, ed è il motivo per cui ogni scelta d’analista è sintomatica. 
Il significante “qualunque”, dice Lacan, non è qualunque significante, presuppone soltanto la particolarità. La particolarità è il godimento. L’analizzante trasferisce all’analista il tratto attraverso cui lo sceglie. Per questo alcuni ritengono che non si potrebbero mai analizzarsi con un uomo, altri con una donna, altri con uno spagnolo, altri con un francese o altri ancora non potrebbero con un pellerossa.
Il significante qualunque presuppone soltanto la particolarità, è un tratto che porta il marchio dell’essere di godimento dell’analizzante. È il motivo per cui l’analista deve essere analizzato: per sopportare di essere il significante qualunque, che è molti “qualunque”, dipende del numero di persone che frequentano il suo studio.
Lacan dice che l’analista si dedica all’agalma dell’essenza del desiderio, e che è  disposto a pagarlo riducendosi, lui e il suo nome, al significante qualunque. A questo si riduce alla fine, e questo funziona come resto dell’operazione analitica. Si tratta del momento in cui il soggetto smette di soddisfare la pulsione attraverso il transfert, attraverso il versante godimento. Quando l’analizzante sa perché ha scelto quell’analista, è il momento in cui può anche lasciarlo. E’ il momento della desupposizione del sapere, della destituzione soggettiva, che vanno insieme.
Vi domanderete: “Allora, questo tipo ci parla o no di transfert e istituzione?” Era necessario porre queste premesse. 
Il transfert nell’istituzione di salute mentale
Come dicevo prima, la mattina lavoro nel servizio di salute mentale di un ospedale. Qui c’è un servizio di consulenza intraospedaliero, e vediamo la popolazione inviata dalle autorità sanitarie. Svolgiamo un ruolo di consulenza interna all’ospedale, e anche esterna. Il lavoro che faccio lì mi ha condotto più volte a interrogarmi. Alcuni analisti di formazione medica hanno risolto le difficoltà che può presentare il lavoro in istituzione ponendosi come psichiatri. Il ricorso al farmaco come risposta può favorire questa tendenza. Siccome io non sono medico, non sono neanche esposto alla tentazione. Tuttavia anche gli psicologi clinici, sottoposti ai condizionamenti istituzionali, possono finire a svolgere funzione di educatori, o di lavoratori sociali, per via della pressione dell’ordine istituzionale. 
Questo avviene perché la nozione di salute mentale nasce dal discorso del padrone, che definisce i criteri universali di benessere, e propone al soggetto precise identificazioni per trovare la propria collocazione come essere sociale.
Il soggetto supposto dal discorso del padrone è il soggetto del diritto. I nostri pazienti hanno diritto alla salute, hanno diritto a ristabilire l’equilibrio perduto, sono squilibrati che dovremmo riequilibrare, perché possano funzionare bene. Siamo così quelli a cui arriva l’insuccesso del discorso del padrone. Questo insuccesso si esprime in ciò che nel soggetto sfugge al dominio delle identificazioni, le identificazioni necessarie perché tutto funzioni bene.
Siamo chiamati a riassorbire gli effetti del cosiddetto disagio nella civiltà. La cura, nell’ideologia della salute mentale, punta a favorire l’adeguamento delle persone ai criteri di benessere che chiunque sia sano dovrebbe accettare, tra questi un buon atteggiamento al lavoro, oltre a qualcosa che Miller, in una straordinaria conferenza su “Salute mentale e ordine pubblico”, ha definito come la capacità di circolare, di andare e venire. È inquietante quando un soggetto smette di circolare, quando non esce più da casa. 
Bisogna dire che i criteri proposti dal discorso del padrone: amore, lavoro, libertà, noi psicoanalisti sappiamo che corrispondono a delle strutture cliniche. Nessuno ama più dell’isterica, nessuno lavora più dell’ossessivo e nessuno è più libero dello psicotico. È qualcosa che noi psicoanalisti sappiamo, ma che non tutti sanno. È il motivo per cui il congresso Enapol in Sudamerica aveva come titolo: “La salute mentale non senza la pazzia di ciascuno”.
In ospedale riceviamo anche i resti prodotti dal discorso medico: pazienti ribelli al trattamento, quelli che si lamentano senza avere niente. Questi resti sono rinviati al settore di salute mentale. Ma la salute mentale non si nutre solo del discorso del padrone, partecipa anche del discorso universitario, perché quel che il padrone non domina attraverso le identificazioni, lo psichiatra tenta di dominarlo con il sapere. È una lettura che è possibile fare attraverso i discorsi di Lacan, e qui trovano posto le utopie della prevenzione, colonna portante nell’ideologia della salute mentale. La prevenzione postula che il soggetto che sa di più, sarà meno malato, postula che sia possibile educare il soggetto dal punto di vista sanitario. Noi sappiano da Freud che non c’è prevenzione possibile, perché il trauma del non rapporto sessuale è inevitabile, non c’è soggetto senza trauma, quindi non c’è soggetto senza sintomi.
La prevenzione nel campo della salute mentale è un’impossibilità logica.
Quest’idea di prevenzione era stata messo a tacere da Freud sin dagli esordi. Freud era inizialmente ottimista sul valore che avrebbe potuto avere un cambiamento della morale, della morale culturale sessuale. Pensava che avrebbe potuto funzionare nella prevenzione della nevrosi. Ricordiamo il suo articolo sull’Istruzione sessuale dei bambini del 1907, o La morale sessuale “civile” e il nervosismo moderno del 1908. Se confrontiamo le tesi di questi articoli con quelle della nuova serie di lezioni nell’Introduzione alla psicoanalisi del 1932, vediamo che Freud rinunciò a ogni illusione sui vantaggi di un’educazione esente dai limiti imposti da una morale coercitiva. Non riuscì più a credere che un’educazione diversa avrebbe potuto evitare le sofferenze della nevrosi. Non c’è nessuna educazione che permetta l’armonia del soggetto con il mondo, che  è l’ideale della salute mentale riassunto dall’Oms come il completo stato di benessere biologico, psicologico e sociale. 
La posizione della psicoanalisi non è quella di un ideale di armonia. Miller nella sua prima conferenza sulla Patologia dell’etica, dice che lo psicoanalista, da parte sua, non è un lavoratore della salute mentale, e in un certo modo il segreto della psicoanalisi è che non si tratta di salute mentale. Non si tratta di salute mentale in opposizione alla patologia medica, non si tratta di un’armonia del soggetto con il proprio ambiente, con il proprio organismo. Il concetto stesso di soggetto impedisce infatti di pensarne l’armonia con qualsiasi cosa nel mondo, il concetto di soggetto è in sé disarmonico con la realtà, e l’analista non può offrire la salute mentale.
Sentiamo tuttavia parlare di psicoanalisi nell’istituzione e, curiosamente, sempre più spesso in riferimento a casi di psicotici o di bambini. Sembrerebbe come se in questi casi il dispositivo istituzionale non ponesse troppe difficoltà all’azione dello psicoanalista. Il motivo, in breve, è che tanto negli psicotici quanto nei bambini non è in gioco la fine dell’analisi. Una fine dell’analisi simile a quella concepita nel nevrotico con la logica della passe, non è formulabile nell’analisi con i bambini né in quella con gli psicotici.
Che cosa succede quando un nevrotico si rivolge a noi in un servizio di salute mentale? In primo luogo c’è il modo d’ingresso nel dispositivo, che di solito non è diverso di qualsiasi domanda a un medico: “Sto male, curami”. Sono proprio i medici a inviare i pazienti, e questo stabilisce una continuità all’interno dell’ordine medico. Spesso il paziente che cerca aiuto nella salute mentale non sa con chi si incontrerà. Non cerca uno psicoanalista, lo trova. Allo stesso modo avrebbe potuto incontrare uno psichiatra o uno psicologo comportamentista. L’incontro con uno psicoanalista anonimo non risulta da una domanda del paziente. La domanda è rivolta all’istituzione, e lo psicoanalista si autorizza a partire dell’istituzione e dal titolo accademico che gli permette di svolgere il   proprio lavoro. Solitamente non è stato assunto come psicoanalista, ma come psicologo o come psichiatra.
Andiamo all’algoritmo del transfert. Nella prima riga c’è il significante S del transfert. È il significante di un soggetto nella sua implicazione con un significante che chiameremo qualunque, che suppone cioè soltanto la particolarità. La particolarità è quel che risulta cancellato dall’istituzione di salute mentale. Cosa viene al posto della particolarità? È il significante salute mentale che viene al posto del qualunque, ed è un significante universale. Non  è un significante qualunque per il soggetto, non implica la particolarità, che è quel che determina la scelta dell’analista quando c’è una domanda di analisi.
Ostacolando la particolarità, l’istituzione la sostituisce con il significante salute mentale. Questa è una difficoltà per l’inizio di un’analisi in qualsiasi istituzione. Potremmo dire: ok, finita la storia, siamo arrivati qui punto e basta, ma sarebbe una risposta di comodo.
L’analista ha un margine di manovra che in primo luogo permette, almeno in alcuni casi, di soggettivare il sintomo del soggetto spostandolo dal puro ordine medico. Sarebbe il primo passo perché il paziente possa capire di essere implicato in quel che accade, e che non soffre del suo sintomo come soffrirebbe di un catarro.
C’è  un secondo momento in cui l’analista deve essere particolarizzato, non risultare completamente riassorbito nell’equipe o nell’istituzione. L’analista deve particolarizzarsi per dar luogo al transfert analitico. L’istituzione condiziona, ma non totalmente. Nel mio caso, per esempio, ho libertà nello stabilire il numero di appuntamenti, la durata della seduta, ecc. Questo mi ha permesso di iniziare delle analisi nelle istituzioni, ovviamente non in tutti i casi, ma neanche nel mio studio privato tutti i casi sfociano poi in un'analisi.
Se un’analista mette in gioco il proprio desiderio di analista e lo fa operare nel transfert, è possibile iniziare un’analisi in un’istituzione, anche se non finirla. Questo per due ragioni: in primo luogo il paziente non paga, in secondo luogo, e credo sia un fattore decisivo, l’istituzione non permette la desupposizione del sapere, perché nell’istituzione la desupposizione del sapere acquisirebbe il valore di frode.
Vediamo il primo punto, quello del pagamento. Nel suo articolo L’iniziazio del trattamento, del 1913, Freud dice che l’analista non nega come nel denaro intervengano diversi fattori legati alla sessualità, e afferma che gli uomini civilizzati oggi, nelle questioni di denaro, si comportano come con le questioni sessuali, le trattano con la stessa doppiezza, lo stesso falso pudore, la stessa ipocrisia e danno loro lo stesso valore. Freud, da parte sua, dice che l’analista non è disposto a incorrere nelle stesse difficoltà, e può trattare con i pazienti le questioni di denaro con la stessa naturale sincerità che vuole produrre in lui per quanto riguarda i fatti della vita sessuale. In questo modo dimostrerà dall’inizio di aver rinunciato a sua volta a un falso pudore. Aggiunge che si sa che il basso costo di un trattamento non contribuisce a innalzarne il valore per i pazienti, e   precisa che il trattamento gratuito intensifica alcune le resistenze del nevrotico. Nelle giovani donne, per esempio, nel rapporto di transfert si insinua la tentazione, e nei giovani uomini si fa strada la ribellione contro il dovere di gratitudine. La ribellione, che procede del complesso del padre, costituisce uno degli ostacoli più seri all’influenza terapeutica. Senza la compensazione introdotta dal pagamento dell’onorario al medico, tutto questo si fa sentire pesantemente nel malato, il rapporto tra i due perde ogni carattere reale e il paziente è privato di uno dei motivi principali per andare alla conclusione della cura. Freud conclude quel che ha spiegato con tanta chiarezza asserendo che i costi maggiori in questa vita sono la malattia e la stupidità.
Ne La direzione della cura Lacan, parlando del transfer primario, dice che se l’amore è dare quel che non si ha, sicuramente il soggetto può sperare di riceverlo, perché lo psicoanalista non ha altro da dargli, tuttavia non gli dà neppure questo niente, ed è meglio così. Per questo niente poi, viene pagato, e preferibilmente in modo generoso, per dimostrare che diversamente non avrebbe nessun valore. L’analista invece deve pagare con le sue parole, nell’interpretazione, e con la sua presenza, con la sua persona come sostegno del transfert. 
Quando un soggetto non paga, si situa nella posizione di amato, e questo funziona come resistenza nella cura, impedisce di uscire dell’amore, di andare al di là. Questo significa che nell’istituzione l’amore di transfert diventa interminabile. Quando critichiamo la psicoanalisi pura, la sua lunga durata e la dipendenza amorosa che provoca, bisogna sapere tuttavia che l’amore eterno è l’amore nell’istituzione.
Nell’istituzione si può stabilire una relazione di amore di transfert e, poiché si mette in gioco un dispositivo di parola, può prodursi uno spostamento dei sintomi, si possono avere effetti terapeutici. Ci troveremmo con i benefici terapeutici di un’analisi che, in un’istituzione, non può terminare, perché quel che non si paga in denaro, si paga in godimento del sintomo. Pagare permette  di separarsi della verità del sintomo come metafora significante e dalla sua dimensione del godimento e questo, nel quadro istituzionale, non si può mai delineare. 
C’è quindi un altro rischio: il sintomo non può essere collocato nella sua dimensione di verità, ma solo nella sua dimensione di salute. Il sintomo così non apparirebbe nella sua dimensione di  verità ma nella sua dimensione di malattia, alla quale si opporrebbe la salute come salute mentale.
L’Altro presentificato dall’istituzione è un Altro senza mancanza, e sappiamo che la fine dell’analisi implica l’assunzione dell’inconsistenza dell’Altro attraverso la desupposizione del sapere dell’analista. Nell’istituzione la desupposizione del sapere dell’analista è impossibile, perché l’istituzione lo mantiene, l’istituzione istituisce. L’istituzione non permette la caduta del soggetto supposto sapere perché la modalità del non sapere nel quadro istituzionale assumerebbe la forma di truffa. 
L’istituzione mantiene in riserva il luogo del sapere, e per questo nell’istituzione si fanno nomi, e il transfert, quando si stabilisce può essere eterno. È un uso sociale, l’uso di insegne sociali, l’uso di un supposto sapere garantito. Io stesso che sono qui oggi, lavoro da venticinque anni in ospedale, mi si suppone una competenza, ma non è alla competenza che do valore. 
Quando si stabiliscono dei transfert nelle istituzioni possono essere eterni, e passano di padre in figlio, come la gratitudine. È un transfert transgenerazionale.
L’ordine istituzionale non permette una fine di analisi nell’istituzione, giacché l’ordine istituzionale si oppone alla logica della fine. Ci sono casi di alcuni pazienti che iniziano un’analisi in istituzione  ma la continuano fuori, e resta per lo più l’effetto terapeutico. In istituzione è meglio incontrare un analista che non un comportamentista o uno psichiatra biologista. D’altra parte non bisogna sottovalutare un altro effetto del transfert nell’istituzione che, in questo caso è il transfert dei lavoratori della salute mentale per la psicoanalisi, e permette che il virus della parola non sia totalmente eliminato. Nella pratica, nelle presentazioni cliniche, nelle presentazioni di malati. Si tratta di un altro effetto di transfert, ma nei della psicoanalisi stessa.
Il transfert nei centri di psicoanalisi applicata
L’ultima parte riguarderà il transfert nelle istituzioni assistenziali psicoanalitiche. Miller afferma che l’incontro con un analista non ha prezzo per un soggetto, anche se è un caso di psicoanalisi impossibile. L’incontro con uno psicoanalista non ha prezzo: dobbiamo sfruttare l’equivoco che questo “non aver prezzo” introduce. Se non ci sono controindicazioni all’incontro con uno psicoanalista, dobbiamo assumerci la responsabilità – cosa che noi psicoanalisti lacaniani facciamo – di evitare di chiuderci nel comfort privato dei nostri studi e  di offrire nello spazio pubblico una risposta adeguata al disagio dei soggetti contemporanei. 
Cosa dobbiamo intendere come istituzione psicoanalitica del Campo freudiano? In primo luogo dobbiamo considerare un lavoro si svolga in un proprio locale. È importante il riferimento materiale a uno spazio proprio, perché sappiamo che un’altra modalità sono le reti assistenziali, dove gli psicoanalisti ricevono nel proprio studio, a basso costo, pazienti provenienti dalla rete. Avere un luogo proprio evita delle ambiguità. Proprio non vuol dire che non possa essere condiviso, ma deve essere un luogo materiale, concreto.
Da altra parte, come si articola la domanda nei Centri di psicoanalisi applicata, nelle nostre istituzioni?  La domanda si rivolge alla psicoanalisi in quanto tale, non a uno specifico psicoanalista. Nei nostri dispositivi non si sceglie lo psicoanalista, si sceglie la psicoanalisi, e questo presuppone già una preinterpretazione rispetto al sintomo. Come dice infatti Miller, il luogo in quanto tale preinterpreta. Lo psicoanalista viene assegnato tra i membri dell’equipe e, per quanto riguarda la funzione assistenziale, si tratta di psicoanalisi applicata alla terapia. Freud già nel 1918 diceva che supponendo di aumentare la quantità di psicoanalisti in modo da poter trattare un gran numero di malati, si porrà comunque il problema di adattare la nostra tecnica alle nuove condizioni. L’applicazione popolare dei nostri metodi porterà quindi a  mescolare piombo all’oro puro dell’analisi, ma qualunque sia la lega di queste terapie popolari, gli elementi più specifici ed efficaci continueranno a essere quelli della psicoanalisi propriamente detta, rigorosa e libera da ogni tendenza.
I nostri dispositivi hanno un funzionamento di estimità, di interno-esterno  rispetto alla salute mentale. Rappresentano un’alternativa psicoanalitica nel campo della salute mentale, attraverso una relazione di esclusione interna. Siamo, in qualche modo, una risposta al disagio nella salute mentale. Alcuni pazienti ci vengono inviati quando falliscono gli obiettivi che la salute mentale si prefigge, e nei nostri Centri trovano una risposta diversa, che non va nel senso dell’adattamento a qualsivoglia ideale prestabilito. Noi non promettiamo la salute, offriamo la possibilità di una psicoanalisi.
In alcuni casi ci si può spingere abbastanza lontano, in altri l’intervento non può porsi troppi ambizioni. Si tratta di realizzare l’intervento possibile quando, secondo Miller, la psicoanalisi, in senso stretto, è impossibile. Dice Miller che a volte occorre depotenziare le identificazioni ideali da cui il soggetto è assillato. Quando l’io è debole si tenta di estrarre dai detti del soggetto qualcosa che permetta di consolidare un’organizzazione vivibile. Se il senso è bloccato, si tenta di fluidificarlo, di introdurlo in una dialettica. Se il senso slitta senza fermarsi su nessun significato sostanziale, si tenta di stabilire dei punti di capitone che daranno al soggetto un’armatura del sostegno. Lo dice in Controindicazioni al trattamento psicoanalitico, nel numero 5 di Mental.
L’esperienza che abbiamo nella Clinica del Campo freudiano, nei CPCT, ci dimostra che gli effetti terapeutici sono importanti. Nelle psicosi senza esordio utilizziamo il transfert come mezzo per sostenere il soggetto. Quando la psicosi ha un’insorgenza cerchiamo di stabilizzare come è possibile.
Nei casi di nevrosi cerchiamo di promuovere l’effetto di divisione soggettiva, che permette un cambio di discorso e il transfert analitico, perché se il transfert c’è  sempre, non possiamo dire la stessa cosa dell’inconscio – mi riferisco al fatto che c’è un transfert non analitico. In questo modo spostiamo il sintomo dal puro ambito medico, evitando la deresponsabilizzazione del paziente e rendendo possibile la soggettivazione del corpo, sentito alieno, come qualcosa che appartiene al soggetto, che lo concerne.
Come si articola la formula dell’algoritmo del transfert nei nostri dispositivi? In tutti i casi il significante del transfert, il sintomo, la malattia, non si articola come una promessa di salute mentale, si articola con la psicoanalisi. La psicoanalisi si offre come complemento del sintomo, ed è la psicoanalisi a venire al posto del significante qualunque, dell’algoritmo del transfert, una volta spostato da questo luogo il significante della salute mentale. Ciò significa che se nella psicoanalisi ortodossa al posto del significante qualunque viene il tratto che l’analizzante attribuisce all’analista – che è la cosa più particolare di se stesso proiettata nell’analista, è la particolarità che cade alla fine dell’analisi, è la propria relazione con la differenza assoluta – nel caso della salute mentale il significante qualunque è sostituito del significante salute mentale, che non è un significante particolare ma universale, è la salute per tutti. È qui che lo psicoanalista nell’istituzione deve aggiungere: non senza la pazzia di ciascuno. Può così rendere incompleto l’universale con la pazzia particolare, intesa non solo come disfunzionamento, ma come risposta, come invenzione con la quale il soggetto tenterà di fare qualcosa di più che non semplicemente subirla, e imparerà a fare qualcosa di diverso che non soffrire. Nelle nostre istituzioni il significante qualunque è sostituito dalla psicoanalisi in quanto tale ma la psicoanalisi in quanto tale è un’esperienza del particolare, cosa che introduce una differenza fondamentale rispetto alla salute mentale. 
Ci sono dunque tre modi possibili di pensare il transfert analitico, secondo la posizione che l’analista occupa nel proprio studio, nell’istituzione di salute mentale o nei consultori psicoanalitici.
La psicoanalisi come complemento del sintomo permette al paziente di fare l’esperienza dell’inconscio e di scoprire la logica delle proprie decisioni e della propria posizione nella vita. È un modo di disturbare la ripetizione e rendere possibile un’apertura al desiderio. Sappiamo, l’ha sottolineato Miller, che quel che è terapeutico nell’operazione analitica è il desiderio. In un certo senso il desiderio è la salute, ed è il rimedio più sicuro contro l’angoscia. Il senso di colpa si deve in fondo a una rinuncia al desiderio.
L’esperienza delle nostre istituzioni – che rappresentano un’alternativa civile, un’invenzione per dare allo psicoanalista la possibilità di proiettarsi al di là del proprio studio privato – si deve sviluppare in quest’orientamento. Si tratta di essere psicoanalisti sempre, perché lo psicoanalista si definisce attraverso il proprio atto, però è uno psicoanalista disponibile, capace di sostenere con i propri mezzi il diritto alla psicoanalisi. 
Troviamo che è possibile creare dispositivi umili, ma che consentono di creare un luogo nel pubblico per la psicoanalisi lacaniana. I nostri dispositivi assistenziali svolgono inoltre una funzione di insegnamento e di ricerca, e rendono possibile l’accesso controllato a degli psicoanalisti in formazione.
Mi fermo qui, per poter chiacchierare sui diversi temi aperti.
Isabella Ramaioli: Possiamo rivolgere delle domande o proporre considerazioni su tutto quello che Fernandez Blanco ci ha offerto questa mattina, a partire anche della permessa concettuale sul concetto di transfert in Lacan. , alla sua articolazione ho trovato veramente interessante per me, istruttiva, l’articolazione degli effetti che si producono del transfert nelle diverse istituzioni. L’esperienza di Blanco ci aiuta a vedere come un’istituzione sanitaria pubblica ha un certo ideale, con certi effetti differisca con un'altra istituzione. Come questo può variare pur restando all’interno di diverse istituzioni. A noi forse non è capitato di fermarsi su quest’articolazione. Mi è sembrato particolarmente prezioso quello che ci ha detto.
Marco Focchi: Intanto che riflettete, proporrei io una domanda a Manuel, a partire dallo spunto che ci ha suggerito sul problema del pagamento in istituzione di salute pubblica. Manuel ha segnalato come l’istituzione sia in difficoltà nello svolgimento, ma soprattutto nella conclusione del trattamento. Tu hai suggerito una possibilità che è quella di un’analisi che comincia nell’istituzione, ma che prosegue altrove. Vedi questa come la sola soluzione possibile? Tolto il fatto di spostare un’analisi che ha avuto il proprio inizio in istituzione, e che può concludersi fuori, vedi altre possibilità di concludere in senso analitico un’esperienza che inizia nell’istituzione?
Manuel Fernández Blanco: La mia esperienza mi fa pensare che sia possibile l’apertura alla dimensione soggettiva, che si possa accogliere la ripetizione in gioco. Questo toglie consistenza alla ripetizione stessa e permette un certo spostamento sintomatico e un sollievo. Mi sembra sia il percorso analitico possibile in una struttura di salute mentale. Per altro verso ci sono una serie di questioni senza le quali una conclusione d’analisi non è pensabile. Si tratta soprattutto, come dicevo prima, del pagamento e della desupposizione del sapere, che strutturalmente sono impossibili nell’istituzione perché la logica dell’istituzione li impedisce. Come riprendeva Isabella, il luogo stesso interpreta: ci sono limiti strutturali che dipendono dal luogo del discorso. Si possono fare degli spostamenti all’interno di questo luogo del discorso, ma non ci si può sottrarre completamente, perché una volta che si è  nella logica discorsiva istituzionale è impossibile esimersene completamente. Ci sono persone che di propria iniziativa possono chiedere di uscire da questa logica, e continuare un’analisi fuori, con lo stesso analista o con altri.
Donata Roma: La questione del pagamento che poni, si presenta anche nello studio, perché sempre di più vengono pazienti che non hanno soldi, o ci sono pazienti che magari hanno già iniziato una cura, vengono licenziati e non hanno  più soldi. Come psicoanalisti abbiamo il dovere di continuare la cura, anche riducendo gli onorari, dicendo che la nostra Scuola ce lo permette, per evitare un effetto di gratitudine da parte del paziente. Abbiamo anche il dovere di mettere un costo meno elevato, perché la nostra Scuola ce lo consente, anzi ci obbliga a farlo. Ognuno ha diritto a fare una cura psicoanalitica, argomento che si applica anche alla psicosi. Questo ho imparato finora, poi sono  aperta anche a imparare altro. 
Prendiamo ora la questione delle telefonate, che è cambiata, perché quando è iniziato il lavoro le telefonate non c’erano. Oggi quando tratti con alcuni tipi di struttura clinica, sostieni il soggetto, oltre che facendolo venire da te, anche con un susseguirsi di telefonate. Questo, per un certo tempo, aiuta molto il soggetto quando si trova è in grande difficoltà. E le telefonate non sono a pagamento, perché non c’è il corpo presente, però il soggetto viene con la voce. Ha bisogno di un supplemento di sostengo. Questa è una questione.
La seconda questione la pongo a nome di chi lavora al Cecli. Al Cecli la formula è di offrire dieci incontri gratuiti. Siamo però arrivati a un punto fondamentale:  dopo i dieci incontri non va bene proseguire il lavoro al Cecli solo se il soggetto chiede di continuare con un’analisi, se fa domanda di un’analisi finiti i dieci incontri. Ma può essere che vada benissimo prolungare se il soggetto dice che gli bastano uno o due incontri, e a quel punto anche quelli sono gratuiti. Vorrei tu dicessi qualcosa su questo come tuo contributo, perché quello che hai detto fino ad ora mi ha spiazzato, e va bene essere spiazzati, ma solo fino ad un certo punto.
Manuel Fernández Blanco: La Clinica del Campo Freudiano a La Coruña si paga, i pazienti pagano, ma l’incontro non ha un prezzo stabilito standardizzato. Generalmente viene anche gente che non potrebbe pagare uno studio privato perché adeguiamo il prezzo a quel il soggetto che può pagare.
Possono essere dieci euro, o tre euro. Gli psicoanalisti non sono pagati e il denaro è devoluto al mantenimento della clinica. In tal modo non c’è una dipendenza dallo stato. C’è un autofinanziamento, non c’è nulla da temere dall’ingerenza dell’Altro pubblico. 
Il sistema per cui l’incontro con lo psicoanalista non ha prezzo, che è la formula di Miller, permette anche di usare il denaro come interpretazione. Se una persona che ha denaro viene alla clinica, gli si può far pagare di più di quello che pagherebbe da uno psicoanalista nel suo studio privato. È un modo di interpretazione: se lei sa che questo è rivolto a gente che ha pochi mezzi, perché viene da noi? Forse così può pensarci
Il fatto che non sia gratuito permette che il trattamento non abbia una durata prestabilita. Questo permette un lavoro a lungo termine con alcuni pazienti, specialmente con pazienti psicotici, spesso casi di psicosi ordinaria, che trovano nella clinica un nodo fondamentale per la stabilizzazione. Non sono mai stato favorevole alla completa gratuità nelle nostre istituzioni, neppure al fatto che gli psicoanalisti non siano pagati. Vengono pagati in altri modi, in formazione, in altri modi.
L’unica possibilità di pensare la gratuità nelle nostre istituzioni, come il Cecli, è collegarle con un limite temporale, altrimenti sarebbe un errore grave. La gratuità indefinita sarebbe antianalitica. Quando partì, per iniziativa di Francisco-Hugo Freda, la prima iniziativa del CPCT, quest’argomento fu discusso, ed era apparso fondamentale collegare la gratuità alla durata temporale limitata. Per questo, nei nostri studi privati non possiamo accettare chi non paga per un lungo periodo. Dobbiamo vedere anche quella che è una parte inumana della psicoanalisi. Sono tempi difficili per dire qualcosa del genere, però Freud considerava la povertà come un sintomo, sintomo che non deve realizzarsi sotto transfert, perché altrimenti il godimento della povertà si stabilirebbe nel cuore dell’esperienza e la renderebbe interminabile. 
Non bisogna confondere il diritto alla psicoanalisi con il fatto che l’analista si faccia agente passivo dell’atto analitico, subordinandosi con questo alla realizzazione del godimento del paziente nel transfert . Il diritto alla psicoanalisi lo garantiamo in altri modi: con i nostri atti, nell’istituzione in cui siamo presenti, con la creazione delle nostre istituzioni e con la nostra disponibilità. Questo però è diverso dal fatto di ammettere, per un certo tempo, che un paziente, tra una seduta e l’altra, possa chiamarci per telefono.
Ricordo una paziente molto grave che tratto da dieci anni. Ha allucinazioni costanti, e per lei l’unico modo di uscire da casa, giacché le voci glielo vietano, è chiamarmi e dirmi: “Posso uscire?” Io dico: “Sì certo!”, e ciò facilita molto la vita di questa donna.  Malgrado sia un caso grave, a volte devo dire: “Mi dispiace, ma non posso”. Oppure, se ci sono tre chiamate nello stesso pomeriggio, dico: “Basta!”, perché non si può stare a sentire tutto. Bisogna trovare il modo di dire basta. Anche nella nevrosi c’è un momento in cui si dice basta, ma in modo accettabile, non in un modo qualunque.
Partecipante: Anche a me la questione del pagamento ha colpito molto. Se in istituzione è complicato perché è l’istituzione che decide il costo della seduta, altrettanto  complicato è nel privato, perché il costo lo decide l’analista, e quindi è l’analista chiamato, paziente per paziente, uno per uno, a rispondere. Ho agganciato la questione del pagamento al desiderio dell’analista. Forse la questione del pagamento dice del desiderio dell’analista. Riguardo la precisazione che lei faceva sul lato disumano nella psicoanalisi, il desiderio dell’analista deve essere un po’ disumano?
Isabella Ramaioli: Forse vale la pena approfondire la questione del diritto. Il diritto alla salute si pone come ideale universale, sul piano dell’universale, contrariamente alla dimensione della psicoanalisi, che riguarda il particolare.
Alberto Visini: È difficile limitare le domande. È stato veramente una giornata molto ricca. Scelgo due domande. Mi ha interessato l’idea, se non ho capito male, che è possibile fare un’analisi in un’istituzione pubblica, mentre hai parlato di psicoanalisi applicata alla terapia in riferimento all’istituzione psicoanalitica. Vorrei tu ci chiarissi questo punto. Mi ha colpito poi quel che hai detto relativamente alla possibilità di iniziare un’analisi in un’istituzione pubblica, ma non di terminarla. Per l’istituzione del campo freudiano psicoanalitico invece, hai parlato di psicoanalisi applicata alla terapia. Ti chiedo di chiarire un po’ questi diversi concetti. La seconda questione riguarda il pagamento delle sedute. Mi domando se nel mondo contemporaneo il pagamento sia solo questione di denaro, con tutto l’apporto simbolico che ci ricordavi, o se il pagamento possa anche avvenire in altra forma, per esempio come sottrazione di godimento. Mi sono trovato in alcune situazioni dove di fronte a una grave difficoltà economica ho chiesto comunque il pagamento della seduta, seduta per seduta, ma attraverso una forma che non fosse quella del denaro, per esempio in forma di qualche cosa che riguardasse il godimento di quel soggeto.
Per quanto riguarda la questione del pagamento della seduta quando il tempo del trattamento non è prestabilito, dicevi: gratuità uguale tempo predefinito. Noi al Cecli abbiamo un tempo limitato, dieci incontri, ma sottolineiamo che non è un tempo predefinito. È limitato ma non predefinito. Mi chiedevo se potevi magari introdurre qualcosa su questo tema a partire dalla conversazione di Barcellona,  coordinata da Miller, sulla questione del ciclo.
Manuel Fernández Blanco: Comincio dal desiderio inumano dello psicoanalista. Non comprendere troppo un paziente è una delle qualità maggiori che si possano avere, perché altrimenti ci rendiamo complici del suo inganno. Questo si può applicare a circostanze piuttosto drammatiche, come per esempio al soggetto che ha subito un trauma. La psicoanalisi ci insegna che ogni soggetto traumatizzato è traumatizzato perché ricondotto a un trauma iniziale. Il trauma clinico avviene sempre in un secondo momento, e non dipende della gravità del fatto. Qualcosa è grave perché traumatico, e non è per il fatto di essere grave che è traumatico. Quindi non c’è trauma, come diceva Freud, che non passi attraverso un’interiorizzazione. Se, quindi, del traumatizzato facciamo una vittima, gli impediamo di uscire dall’esperienza traumatica, perché gli impediamo di vedere perché questo evento traumatico è diventato traumatico per lui. È ovvio quel che dice il discorso comune: se qualcuno è stato nel luogo dell’attentato, come avrebbe potuto non essere traumatizzato? L’attentato è traumatico però soltanto se c’è un’iscrizione preliminare con cui si associa, altrimenti è un momento di commozione, niente di più. Bisogna rendere il soggetto traumatizzato responsabile del proprio trauma, perché è l’unica possibilità di liberarsi del trauma. Questo è il versante inumano della psicoanalisi, che si basa sul fatto, come diceva Lacan, che della nostra posizione di soggetto siamo sempre responsabili. Così come della nostra posizione nella vita, siamo responsabili di guadagnarci la vita oppure no, ed è per questo che la povertà può essere concepita come un sintomo. 
Se facciamo del povero una vittima della società, della crisi, ecc. allora dobbiamo analizzare la società, non il soggetto. Una psicoanalisi può essere fatta soltanto da un soggetto responsabile, e si può rivolgere solo a un soggetto responsabile.
I colloqui preliminari implicano per questo, tra altre cose, la messa in forma del sintomo: “Ciò di cui gode, e di cui si lamenta, è qualcosa in cui lei è coinvolto”.
Questo è il principio dell’inumanità della psicoanalisi, ma questa inumanità è il miglior servizio che si può rendere al soggetto, perché la comprensione lo condanna alla ripetizione del godimento. E metto questo aspetto in rapporto con la questione del diritto. Miller cita questo tema nel suo lavoro sulle controindicazioni al trattamento psicoanalitico. Il diritto alla psicoanalisi non va pensato nel senso dei diritti dell’uomo, dei diritti universale, ma piuttosto nel senso di rendere possibile che qualcuno incontri uno psicoanalista. È l’idea dello psicoanalista cittadino, dello psicoanalista disponibile. Il fatto di essere accessibile all’incontro non si inscrive però nella logica del diritto, perché sappiamo per altro che i diritti sono obbligatori, e la psicoanalisi non deve ne può esserlo. Se d’altra parte stabilissimo la psicoanalisi come un diritto, e qualcuno ne fosse privato, acquisirebbe lo statuto di vittima, vittima della privazione del diritto, e non è questa la posizione giusta.
Non avevo precisato, è vero – e ringrazio Alberto per la sua domanda che neanche nei nostri Centri la psicoanalisi può finire. Non può finire per ragioni che non sono esattamente le stesse che nei dispositivi di salute mentale. Nel caso in particolare dei CPCT è perché sono pensati in modo tale di escludere la questione: si tratta dell’intervento di uno psicoanalista che utilizza tutto il potere clinico e teorico della psicoanalisi per permettere di sbloccare la situazione di un soggetto che, se dovesse analizzarsi, dovrebbe andare da qualche altra parte. Nel quadro del CPCT la possibilità non è contemplata. Non lo è perché sappiamo che  il dispositivo stesso di questi Centri, tra l’altro, non stabilisce il luogo della particolarità, e mi sembra che senza sarebbe impossibile condurre un’analisi fino al termine.
Un’ultima questione: mi sembra opportuna la precisazione che il tempo è limitato ma non predefinito, altrimenti faremmo come i terapeuti sistemici. ci sono dieci sedute prestabilite, e o uno guarisce o se ne va, è il loro sistema. 
Un’ultima cosa: pagare in modo diverso che non con denaro. È una questione che attraversa la storia della psicoanalisi, soprattutto la psicoanalisi con bambini,  perché loro non maneggiano denaro. A volte quindi è stata tentata una forma di pagamento simbolico, per esempio un disegno, o una cosa che il bambino porta. Ma il disegno qui non produce un effetto di perdita, risulta piuttosto come un effetto di complemento all’Altro, ha un valore fallico, è una rappresentazione narcisistica del soggetto. Non c’è pagamento simbolico, pagamento e simbolico si escludono, il pagamento deve essere reale e il denaro è reale. Per questo Freud lo pone come identico alla sessualità. Perdere denaro è perdere godimento. Invece portare un disegno può essere un godimento. C’è una dimensione del denaro come sottrazione di godimento che lo rende reale, e per questo è ineliminabile nella pratica psicoanalitica. Il problema che si pone è se un multimiliardario possa essere analizzabile.
Marco Focchi: È un problema in effetti che ci poniamo anche noi in Italia...
Intervento di Manuel Fernandez Blanco del 19 febbraio 2011


Trascrizione e traduzione di Florencia Medici
Revisione di Marco Focchi

lunedì 14 marzo 2011

Il transfert in gioco nella psicoanalisi con i bambini



Per affrontare il tema di oggi ho bisogno di un minimo dispositivo logico che ci permetta di situare la posta in gioco. A questo scopo mi riferisco a un breve testo di Freud, intitolato «Alcuni tipi di carattere tratti dal lavoro psicoanalitico», del 1916. 

Per la data e la composizione, questo testo non si può considerare propriamente un testo tecnico, ma permette di presentare in poche parole, in modo semplice, se possibile, il tragitto di una analisi e la sua posta in gioco. Il testo si trova in italiano nel volume 9 delle Opere di Freud edite da Bollati Boringhieri.

Freud vi definisce il compito di una psicoanalisi come segue: «...indurre il paziente a rinunciare a un conseguimento immediato e diretto di piacere» (conseguimento di piacere è la traduzione del famoso Lustgewinn, termine che Lacan valorizzerà traducendolo con «plusgodere»). Freud, se ne riassumiamo le indicazioni, dice che con la psicoanalisi si tratta di ottenere da una parte una rinuncia al soddisfacimento, che ora chiamerò una cessione di godimento e, dall'altra, uno spostamento del modo di soddisfazione iniziale. Freud precisa che questo non si può fare da soli, ci vuole «un altro influente », la cui influenza non concerne qualsivoglia forza morale o educativa, ma unicamente «qualche componente dell'amore».

Ecco lo schema logico minimo che vi propongo e che servirà per spiegare la tecnica della psicoanalisi con i bambini. 


                                                                                                                                                                                                                                                                                                               
                                                                                                                                             
Un modo iniziale di soddisfacimento, uno spostamento del modo di soddisfacimento, una cessione di godimento, una rinuncia al soddisfacimento. Il termine spostamento e il termine rinuncia o cessione non sono la stessa cosa. Nell’ultimo caso deve intervenire altro l’efficiente che è lo psicoanalista, vedremo in che modo.

La questione al centro della teoria freudiana è: come è possibile che uno spostamento di soddisfazione, vale a dire uno spostamento che tocca la pulsione, si realizzi grazie a un dispositivo fondato sulla parola? Freud risponde alla domanda in molti modi. Prendo due risposte che si trovano nell'Introduzione alla psicoanalisi. Per mostrare come è possibile mobilitare un modo di soddisfacimento attraverso la parola, ci dice che si deve in primo luogo isolare il sintomo come nuovo modo di soddisfacimento della libido. C’è dunque un primo tempo che isola il sintomo. In secondo luogo bisogna operare una connessione tra libido pulsionale da una parte e sistema inconscio dall'altra. È il ruolo che Freud attribuisce alla fissazione. La fissazione per Freud è un perno, un punto nodale dove funziona il meccanismo seguente: «Le rappresentazioni sulle quali la libido investe la propria energia appartengono al sistema inconscio e sono sottoposte ai processi di condensazione e di spostamento». Si realizza una traslazione della libido sulle rappresentazioni inconsce, sui significanti. È questo a consentire nella cura di mobilitare le modalità di soddisfacimento.

Questa prima translazione di libido sui significanti permette di isolare, dice Freud, ciò che chiama Libidovertretungen. Vertretung è la rappresentazione, il rappresentante dei rappresentanti della libido, il rappresentante degli agenti – per parafrasare Lacan nel seminario L’envers – degli agenti dell'agenzia libido : si tratta di significanti. Vi sono significanti che si trovano proprio qui. Il fatto che esista la Libidovertretugen consente che la mobilitazione dell'inconscio attraverso la parola produca uno spostamento del modo di soddisfacimento svuotandone i rappresentanti, relizzando cioè una cessione di godimento.

Si tratta, in fondo, della regola tecnica fondamentale, quella dell'associazione libera. Una delle migliori definizioni della regola si trova in Tecnica della psicoanalisi, dove Freud dice che far funzionare l'associazione libera significa sforzarsi di non contendere all'inconscio il compito di stabilire i rapporti che per il soggetto contano.

Partendo da un quadro così definito, nella pratica psicoanalitica con i bambini si pongono subito due questioni.

Prima questione: non è forse il caso, con i bambini, di modificare lo scopo della cura? Non è forse sufficiente isolare il sintomo e poi il bambino guarirà da solo? Alcune tesi, anche nel nostro campo, vanno in  questa direzione, vanno cioè nel senso in cui, come ho già detto, per il bambino sarebbe sufficiente lo spostamento.

Seconda  questione: pur mantenendo lo stesso scopo, lo stesso quadro d'insieme del processo, non si devono forse introdurre nella tecnica modifiche dovute alle peculiarità del bambino rispetto all'adulto? Non si deve forse, per esempio, cambiare il quadro, visto che un bambino difficilmente rispetta un quadro rituale? Non si deve abbandonare la regola della libera associazione, soprattutto con i bambini piccoli, che non maneggiano agevolmente il linguaggio? Non si deve modificare la concezione del transfert per adattarlo al bambino?

Vi propongo di rivisitare le madri officianti della psicoanalisi, di cui Lacan parla nel 1953 nell'introduzione a «Funzione e campo della parola e del linguaggio», per interrogarle sulla questione della tecnica. Chi sono le madri officianti? Le conoscete. Prima di tutto c'è quella che chiameremo la pioniera, Hermine Von Hug-Hellmut; ci sono certamente Melanie Klein, Anna Freud, Donald Winnicott – madre officiante della psicoanalisi anche lui naturalmente – poi Françoise Dolto e Maud Mannoni.

Prima però fissiamo il nostro punto di partenza, vale a dire Freud, in modo da situare con lui la questione del transfert nella cura del piccolo Hans. Ci aiutiamo con la lettura che Lacan ne fa nel Seminario IV.
1-    Leggiamo a p.332: «un significante che servirà da supporto a tutta una serie di transfert»
2-    L’obiezione fatta all’analisi di Hans è che non è una cura perché è il padre a condurre il gioco. A p. 417 troviamo: «In effetti, non possiamo forse chiederci, dal momento che questa analisi è stata portata avanti dal padre, se non presenti dei tratti specifici che ne escludono, almeno parzialmente, la dimensione propriamente transferale?». Lacan risponde alla questione qualche pagina dopo, dicendo che vi è un rapporto complesso con il padre, una duplicazione: c’è il padre effettivo, che dialoga con Hans, che è un padre che ha la parola; e c’è il padre al di là, che apre il campo della parola e ne indica il fine, il padre Freud, al posto di ideale, testimone della verità. Lacan sostiene che in ogni analisi di Freud vi è questo sdoppiamento del padre, ma che abitualmente si produce sullo stesso analista.
3-    Esaminiamo questa idea. Colui che ha la parola è innanzitutto Hans «Conosce peró molto bene il favore prezioso che gli offre il fatto di poter parlare, e lo sottolinea senza sosta. Quando dice questo o quello, e gli si risponde che va bene o che va male – poco importa, dice, va sempre bene, visto che possiamo inviarlo al professore.
Non si tratta solamente di parlare, ma di parlare a qualcuno (…). Sarebbe stupefacente non ci accorgessimo, in questa occasione, che si trova qui quanto vi è di prezioso e di efficace in un’analisi.
Tale è la prima analisi fatta con un bambino.» (374-375)
4-    La funzione che rende possibile rivolgersi a un Altro permette di associare alla costruzione sintomatica della fobia dei cavalli «il mito religioso dell'Edipo». Poiché questo mito viene proferito da Freud, il piccolo Hans può dire che il professore parla con il buon Dio, e diventa possibile estrarre il significante individuato, cavallo, da una posizione puramente immaginaria per inscriverlo su un'Altra scena, dove può essere utilizzato per un certo numero di permutazioni, per ogni sorta di traslazione. In un mondo dove la sostituzione è possibile, entra in scena la metafora, cosa che permette a Hans di uscire dall'impasse materna. Oggi, per altro, non siamo più obbigati a pensare che il padre sia il termine ultimo della metafora. La plurivocità del significante mette l'enigma al cuore del dispositivo che oggi possiamo indicare con il termine, forgiato da Lacan, di soggetto supposto sapere. E' il luogo del «perché?».
5-    Lacan ha però reperito nel testo di Freud un altro modo di messa in funzione del significante, un'altra modalità del transfert. Non si tratta più dell’effetto derivante dal distacco tra significante e significato, ma al contrario di un effetto di ormeggio singolare. Lo possiamo osservare nell'equivoco wegen dem Pferd / Wägen dem Pferd, a causa del cavallo / carrozza a cavalli. «Per il fatto che che non risponde a niente» dice Lacan (345), si verifica «un transfert di peso grammaticale» tra la causa e il significante cavallo
.È un processo metonimico di natura diversa da quello del gioco delle permutazioni significanti: qui abbiamo la fissazione del godimento a una causa senza nome. È l'altra faccia del transfert.
6-    Vedremo che non è questa la vena sfruttata dalle pioniere della psicoanalisi con i bambini, che rapidamente diventeranno prigioniere delle questioni di tecnica psicoanalitica.


Hermine Von Hug-Hellmuth

Parliamo ora di Hermine Von Hug-Hellmuth. Diciamo qualche parola su di lei, perché è la meno conosciuta. Non è medico di formazione, all'inizio è un’istitutrice. È lei la prima a Vienna a prendere bambini in analisi, e per questo viene chiamata pioniera. Per molto tempo tuttavia non si è più sentito parlare di lei, perché ha fatto una fine drammatica: nata nel 1871, nel 1924 è stata assassinata dal nipote, di cui era stata nutrice. Il nipote è stato, inoltre, il primo caso di cui ha pubblicato la storia, avendolo seguito quando lui aveva cinque anni. Nel 1920, quattro anni prima della morte prematura, scrisse un articolo sulla tecnica dell'analisi dei bambini. Il testo non comincia nel modo migliore, poiché sostiene che l'analisi, come pedagogia e come terapia, non può limitarsi a liberare il giovane delle proprie sofferenze, deve anche inculcargli valori morali, estetici e sociali. Dobbiamo però perseverare nella lettura e, nel seguito, l'articolo pone questioni precise e tuttora valide. Seguendone il filo riusciremo a districare, la questione della tecnica e quella del transfert, giacché solleva tre punti decisivi per la particolarità dell'analisi del bambino.

Il primo punto riguarda ciò che chiameremo il quadro. Hermine Von Hug-Hellmuth interroga il quadro dicendo che in fondo la differenza con i bambini è che non vengono di loro spontanea volontà. Il bambino risponde alla volontà dei genitori. Ma si viene spontaneamente a vedre uno psicoanalista? Non ne sarei cosí sicuro! Far qualcosa spontaneamente vuol dire farla con piacere. E per l’appunto, generalmente, si va a incontrare uno psicoanalista quando il piacere è messo in questione. Di fatto, già in questo breve accenno si vede l’interesse che c’è a interrogare la psicoanalisi nel suo insieme, prendendo per esempio il problema del quadro, a partire dalle questioni che si pongono con i bambini. Nessuno viene spontaneamente in analisi, si viene spinti da qualcosa. Possiamo quindi in prima battuta dire che non vi è, a rigor di temini, una differenza radicale su questo punto tra il bambino e l'adulto.

Il secondo punto individuato dal testo ricorre con grande frequenza tra le questioni poste dagli psicoanalisti che si occupano di bambini. Il punto riguarda il fatto che il bambino si trova nel pieno svolgimento degli eventi che lo fanno ammalare. Questo fa una differenza. L'adulto, dice Hermine Von Hug-Hellmuth, soffre di eventi passati, il bambino di eventi del presente. Potremmo riassumere la risposta a questo punto dicendo: gli eventi di cui il soggetto soffre sono sempre attuali. Cosa c’è, per il soggetto, di più attuale di un ricordo? E' veramente l'attualità dell'attuale. Nel ricordo non si tratta del passato che ritorna, ma dell'attualità di una questione sempre presente, e che prende forma di ricordo. Con questo abbiamo un'indicazione precisa. Se qualcosa per un bambino costituisce un evento, non è perché è vicino nel tempo, e la sua piccola anima infantile non può cogliere il tempo in tutta la sua ampiezza. Non è perché l’evento è vicino, successo il giorno prima, che se ne parla, ma perché esso si è legato a un'iscrizione significante già presente, perché si è attivato un elemento della struttura, perché c’è stata una messa in atto della realtà dell'inconscio.

Il terzo punto sollevato da Hermine Von Hug-Hellmuth riguarda ancora la questione del quadro: il bambino non ha nessun interesse a trasformarsi, ad abbandonare il proprio comportamento attuale nei confronti dell’ambiente, perché l’ambiente è coinvolto, è implicato nel suo modo iniziale di soddisfazione, è preso nel sintomo del bambino. È l’aspetto che presenta maggiori difficoltà, ma Hans ci ha insegnato molte cose su questo punto!

Molti bambini, è vero, quando incontrano un analista vengono senza esser loro a soffrire del sintomo lamentato dalle persone intorno. Cosí, dice Hermine Von Hug-Hellmuth, con questi bambini si trascorrono insieme alcuni momenti per comunicare loro delle conoscenze, per far loro perdere alcune cattive abitudini, per giocare con loro, o anche per qualche interesse particolare nei loro confronti. Ma è esattamente ciò che si fa anche in un'analisi con un adulto: un soggetto in analisi, dopo un po', lo si fa venire per comunicargli qualche conoscenza, per fargli perdere qualche cattiva abitudine, per giocare con lui, o anche per qualche interesse particolare nei suoi confronti. E' esattamente il movimento di un’analisi. Quindi, in fondo, quel che ci dice che Hermine Von Hug-Hellmuth è prezioso, non contraddice assolutamente all'esperienza analitica, e rende l’idea del modo in cui il transfert veniva concepito dagli allievi di Freud.

Vi è poi una questione inevitabile, che successivamente vedremo poco affrontata, e concerne il divano. Dobbimo mettere sul divano un bambino? Freud dice di no, per molte ragioni legate alla possibile seduzione che può girare nella testa di un bambino. Questo però non toglie che quella del divano sia una questione vera, perché pone il problema dello sguardo. Sapete che il divano è stato inserito da Freud nel dispositivo analitico per molti motivi, e tra questi si può individuare il fatto che invece di consentire uno scambio di sguardi tra l'analizzante e l'analista, l’assetto con il divano permette di isolare la dimensione dello sguardo : si delinea in modo più preciso lo sguardo sotto il quale l'analizzante procede. Con i bambini il problema certamente si pone. Gli psicoanalisti dei bambini ne parlano poco, ma nell'esperienza si vede che spesso occorre fare delle manovre intorno alla questione dello sguardo. Spesso il bambino fa riferimento allo sguardo con brevi accenni : «Guarda!», « Ti ho visto!». Sono accenni che mostrano come si mantenga l'asse immaginario e non si possa isolare lo sguardo sotto il quale il bambino si trova, cosa  tuttavia assolutamente essenziale, perché il bambino ha di mira il posto che occupa come oggetto prezioso o come oggetto per i genitori. E' un aspetto che riguarda la problematica del suo valore per l'Altro, posta con un indice pulsionale.

Hermine Von Hug-Hellmuth è la prima a porre la questione del gioco, che certamente segna una differenza con l'adulto, e considera che per l'adulto si tratterebbe di rendere consce le motivazioni inconsce, mentre con il bambino le cose andrebbero diversamente. A partire dal gioco infatti l'analista potrebbe prendere atto che c’è effettivamente un lavoro dell'inconscio. Una determinata sequenza di gioco mostrerebbe che l’inconscio si è attivato. Anche questo però si dimostra essere un falso problema riguardo alla psicoanalisi con i bambini. Bisogna attendere Jacques-Alain Miller per avere la soluzione. Quando Miller afferma che «l'inconscio interpreta», veniamo liberati da questo falso problema. La questione infatti non è di sapere se il soggetto prende o no coscienza, la questione è di sapere se il soggetto, dall'interpretazione dell’inconscio, trae conseguenze in termini di godimento. Ciò vale sia per il bambino, sia per l’adulto.

Seguiamo ancora Hermine Von Hug-Hellmuth che, riguardo all'interpretazione, sostiene che con il bambino bisogna fare particolare attenzione, per via di quella che chiama «la grande duttilità dell'anima infantile»  – usa espressioni molto immaginifiche – e per via del rischio di suggestione. Anche questo ci dà un'indicazione interessante sul lavoro con i bambini, che è di non aggiungere troppi significanti rispetto a quelli di cui dispone il bambino. Ricordiamo che Freud raccomandava di non contendere all'inconscio il compito di stabilire i rapporti.

Hermine Von Hug-Hellmuth prosegue con la questione del transfert, che in seguito metterà molto in imbarazzo gli psicoanalisti dei bambini, e formula quello che possiamo chiamare «il teorema del fustino di detersivo», ovvero: voglio scambiare i miei due fustini di detersivo X con un fustino di detersivo Y? In altri termini: il bambino vorrà scambiare i suoi oggetti d'amore attuali, i genitori, con un nuovo oggetto d'amore? Vuole farlo? Bisogna farglielo fare? Ecco il problema che, bisogna dire, Hermine non risolve. Lo formula però in modo appropriato. In fondo conta il momento in cui il bambino capisce che l'analisi non coincide con il campo dei genitori.

Hermine Von Hug-Hellmuth conclude dando una definizione preziosa del processo della cura, che chiama: un cambiamento di cristallizzazione. Se seguiamo il nostro schema, vediamo che quel che lei considera si possa esigere in una psicoanalisi con i bambini è uno spostamento del modo di soddisfacimento. Il che, nel 1920, non è male.

La disputa sul transfert: Anna e Mélanie
Ci spostiamo nel 1923 e arriva Melanie Klein col suo articolo sull'analisi dei bambini. Con Melanie Klein si cambia registro: non si parla più, per il bambino, di analisi con mire pedagogiche. C’è solo la psicoanalisi, esclusivamente la psicoanalisi, nient'altro che la psicoanalisi. Sin dall'inizio si dirà che La Klein è più freudiana di Freud. Dietro le inibizioni che i bambini presentano c'è sempre l'angoscia, che è sempre angoscia di castrazione. L'angoscia precede la formazione del sintomo e l'Edipo e il superio sono early, ovvero non « precoci», come si traduce abitualmente, ma primari. Quando si incontra un bambino, qualunque sia la sua età, l'Edipo e il superio sono già presenti. Questo piacerà molto a Lacan, perché è un approccio quasi strutturale alla realtà psichica.

Ma già negli articoli decisamente freudiani del 1924, Melanie colloca al centro ciò che per lei è veramente early, primario, vale a dire il desiderio di penetrare il corpo della madre. E' questo il fantasma che sta sempre dietro l'angoscia di castrazione, e che è dunque primario. Non si capisce la tecnica kleiniana della psicoanalisi con i bambini, né il kleinian training della Scuola inglese, se non si considera lo spirito presente embrionalmente in questo articolo. L'angoscia di castrazione, in effetti, non è primaria. Se dobbiamo interpretarla rapidamente – come lei afferma si debba fare - è perché il bambino venga subito messo a confronto con questo desiderio, o questo fantasma di penetrazione materna che è davvero primario. Occorre che il bambino ne prenda la misura nel transfert, dove si colloca, traendone la conclusione che si impone: la madre è in-castrabile, l'alternativa sarà tra l'invidia e la gratitudine (è il titolo dell’ultima opera della Klein, Invidia e gratitudine). Se ci riferiamo allo schema, vediamo che, certo, gli spostamenti dei modi di soddisfacimento per Melanie Klein giungono fino a una cessione di godimento, ma si tratta di cedere questo godimento a quella che su di esso ha diritto e possesso, cioè la madre.

Non saremo cosí sorpresi che l'incontro con l'erede, Anna Freud, produca una sorta di deflagrazione. Nel 1926, Anna è la prima aa attaccare con una serie di conferenze intitolata «Introduzione alla tecnica della psicoanalisi infantile». Subito, nel 1927, Melanie contrattacca. Consideriamo, se volete, il modo in cui Anna Freud risponde e quello in cui Melanie Klein replica a sua volta, esponendo le proprie tesi.

La questione riguarda la fase preparatoria a una psicoanalisi, quel che noi chiamiamo colloqui preliminari. Anna Freud definisce due condizioni necessarie perché sia possibile iniziare un’esperienza d’analisi con i bambini: in primo luogo bisogna che vi sia un senso di sofferenza, in secondo luogo occorrono fiducia e accettazione del trattamento. O queste condizioni sono presenti sin dall'inizo, e appoggiandosi a esempi di casi Anna Freud mostra che può accadere, oppure queste condizioni vanno provocate, e chiama questa fase preparatoria con il nome vezzoso di addestramento all'analisi. Bisogna, isomma, provocare il transfert.

A questo punto a Melanie ribolle il sangue: rimprovera aspramente Anna di sfruttare l'angoscia e il senso di colpa presenti nel bambino dall'inizio per legarlo a sé, e la invita, anziché utilizzare questi fattori come mezzi di seduzione, a farli entrare direttamente nel processo come fa lei, interpretando, per esempio, l'angoscia che spiega perché il bambino non ne vuole sapere della propria sofferenza. Invita quindi a interpretare piuttosto che a provocare il transfert!
Leggendo insieme Anna e Melanie vediamo che davvero hanno entrambe l'idea che con il bambino, se riprendiamo i termini di Lacan in «La direzione della cura», l’analista «deve pagare in parole, (…) di persona (…), con ciò che di essenziale c'è nel suo più intimo giudizio (...)». Ma il più intimo giudizio non è lo stesso per l'una e per l'altra.
Per Melanie Klein la partita si gioca sul godimento del corpo della madre – genitivo oggettivo e genitivo soggettivo: godere del corpo della madre e il corpo della madre che gode. Tutti i significati che appaiono con la libera associazione, significati di castrazione, di divorazione, di sventramento, che si riscontrano nelle psicoanalisi dei bambini – e non solo – sono da lei sempre raccordati al corpo della madre e, indirettamente e solo in seguito, al corpo del bambino come effetto di ritorno. Ne deriva per lei l'importanza di ciò che chiama tecnica del gioco, play therapy, che si oppone alla child guidance d'Anna Freud, un modo di condurre per mano il bambino. Per Melanie Klein la play therapy è il modo più efficace di far produrre a un bambino significati immediatamente interpretabili in termini di fissazione di godimento, senza passare, o passando il piu velocemente possibile, per lo spostamento significante dei modi di soddisfazione. Si tratta, in fondo, di andare velocemente all'essenziale, e lei sa cosa è l'essenziale.

Anche Anna Freud esamina i mezzi tecnici utilizzati nell'analisi dei bambini. Dice che in fondo li si reperisce facilmente : ci sono dei ricordi, dei sogni e la loro interpetazione, ci sono delle fantasticherie, e infine dei disegni. Resta prudente sul gioco, e dice qualcosa che ci può interessare. Trova formidabile che con i bambini ci sia molto materiale, ma considera anche che tutto questo materiale è un vero problema. Perché? Perché tale abbondanza annulla – è la sua espressione – tutti i vantaggi che il materiale fornisce, non trattandosi più di associazione libera. Lo precisa quando dice che per produrre la libera associazione in senso freudiano, come regola fondamentale, l'analista può fare in due modi: o domanda al bambino delle associazioni, le esige, e in certi momenti chiave non è sbagliato farlo, o fa  particolare attenzione alle associazioni impreviste e spontanee.

Ritroviamo la dialettica tra Anna e Melanie sulla questione del transfert con il bambino. Quella del transfert è una questione duplice, perché implica anche l’aspetto relativo al rapporto tra psicoanalisi ed educazione, mettendo in gioco il posto che lo psicoanalista può avere come pedagogo. Su questo anche Melanie è radicale quanto Anna. Anna Freud è estremamente imbarazzata dal transfert: riconosce certamente che vi sono fenomeni di transfert nelle analisi con i bambini, ma esita a sostenere l’esistenza di una nevrosi di transfert. Per Freud la cura psicoanalitica ha luogo solo se c'è nevrosi di transfert. Perché Anna invece esita? Per la stessa ragione di Hermine, vale a dire: per il bambino i genitori sono presenti come oggetti d'amore nella realtà. Come fare allora? Nella cura analitica con i bambini c'è il problema dei genitori, ed è un problema che si raddoppia, perché c’è anche il superio.
Anna Freud è messa a confronto con un dilemma. Possiamo prendere le cose in modo molto semplice: in fondo un'analisi mette in questione le identificazioni del bambino, le sue fissazioni di godimento, il suo modo di soddisfazione, e in questo non differisce dall'analisi dell'adulto. In tutto questo tempo però il bambino sta costituendo il superio, erede – secondo Freud – delle prime identificazioni. Questo è un problema, perché se si toccano le prime identificazioni, come fa poi il bambino a costituire il superio, destinato a controllare i moti pulsionali? Ecco il dilemma di Anna Freud: è la formazione del superio come istanza di controllo ad essere minacciata, è cosí che Anna Freud lo intende.
Ne conclude che durante il tempo della cura lo psicoanalista deve assumere e garantire un ruolo pedagogico rispetto ai moti pulsionali che man mano si liberano – ne ha molta paura – poiché è un ruolo che i genitori non possono svolgere. Essi sono infatti la fonte delle prime identificazioni che vengono man mano modificate dalla cura. Bisogna che, per tutta la durata della cura, l'analista si sostituisca all'io ideale del bambino. Per prevenire la nevrosi occorre impedire al bambino di concedere una soddisfazione effettiva a qualche stadio della sua sessualità, che è necessariamente perverso.
Anna Freud inserisce quindi nel nostro schema iniziale l'idea che la rinuncia alla soddisfazione cui mira la cura analitica con i bambini può avvenire solo sotto l'autorità dell'analista. Passa poi da questa posizione alla seguente: la via che le sembra più interessante, quella della child guidance, è che l'analista potrebbe riuscire a modificare, a trasformare l'atteggiamento, la posizione che il bambino tiene con i suoi primi oggetti identificativi, i genitori. Pensa che questa via sia proficua, è come se sul nostro schema si uscisse un pochino dal quadro. Bisogna tenerlo a mente, perché è proprio la strada che sará seguita.

Su quel che vi ho appena esposto, il problema dei genitori, Melanie Klein si scatena. È feroce, dice cose terribili alla povera Anna, dice che quel che fa non è analisi, è un circolo vizioso, e che non se ne esce, che non ha capito niente del superio. Melanie Klein lo dice bene: il superio è una formazione da subito staccata dai genitori, e qui la seguiamo, ovviamente. Per lei quindi non c'è nessun problema di genitori nella cura. Spiega come la sua esperienza l'abbia condotta a liberarsi dell’ambiente circostante, qualunque sia la sua incidenza sui cambiamenti e sulla situazione reale del bambino. Per lei è assolutamente impensabile combinare il lavoro analitico e il lavoro educativo.

Al punto in cui siamo, ecco quindi alcune conclusioni provvisorie. Anna Freud considera che la psicoanalisi con il bambino, per restare freudiana, debba modificare certe regole tecniche. È quanto ho riassunto parlando di problema dei genitori.
Per essere più freudiana di Freud, Melanie Klein considera invece che nella conduzione della cura con i bambini non bisogna in nessun caso modificare le regole. Abbiamo visto però che dietro la sua tecnica del gioco si nascondeva una distorsione profonda della psicoanalisi freudiana, nel nome di ciò che lei chiama psicoanalisi pura, ovvero una psicoanalisi che sarebbe senza resto. Vi è dunque un problema del gioco.
Gli psicoanalisti dei bambini erediteranno le difficoltà provenienti da questi due problemi, che sono problemi logici, sono impasse logiche. Erediteremo quindi la tecnica psicoanalitica con i bambini, con quel che vi è di irrisolto nel problema dei genitori e in quello del gioco. In questi due problemi si manifesta l'imbarazzo presente nella psicoanalisi con i bambini relativamente alla questione del transfert.

Arriva Winnicott.
Winnicott è un kleiniano. Si è formato in modo rigoroso al  kleinian training. Proverà però – e riuscirà – a introdurre tra la madre e il bambino una minuscola leva, forse un po' debole, ma efficace. Sapete che è l'oggetto transizionale. È una minuscola leva tra la madre – attenzione, non una madre qualunque, la madre kleiniana – e il bambino. La introduce perché considera necessario creare un divario. Winnicott è sempre attento al contenuto, alle articolazioni, alle associazioni del gioco del bambino, ma riconsidera anche la play question, e dà un certo sviluppo alla dimensione del gioco, del fatto di giocare.  Lo dice ripetutamente: non si tratta più di play, ma di playing, si tratta cioò del bambino mentre gioca. Prova a disinnescare la tecnica kleiniana del gioco, che trova abbastanza feroce. In «Gioco e realtà» dice che se deve esserci psicoterapia, giocare deve essere un atto spontaneo, e non l'espressione di una sottomissione o di un’accondiscendenza. Reintroduce la dimensione di cui vi ho or ora parlato, dell'associazione libera nella tecnica del gioco. In particolare utilizza la tecnica dello squiggle, lo scarabocchio, che contrassegna la sorpresa, dimensione necessaria nella libera associazione, giacché non basta che il bambino giochi. Insiste molto sulla dimensione della sorpresa. Dice, per esempio, che il momento chiave è quello in cui il bambino resta sorpreso, e non quello in cui si fa una brillante interpretazione. Commentando poi una critica della tecnica kleiniana dell'interpretazione, afferma che l'interpretazione data quando il materiale non è maturo è solo indottrinamento che genera sottomissione.

Winnicott introduce dunque un divario, e si respira un po'. Il problema è però che, in modo peraltro logico, da ciò che dice trae alcune conseguenze. Le conseguenze sono tali, lo dice esplicitamente, che servono alcune modifiche tecniche. Perché? Perché vi sono soggetti, bambini e anche adulti, che sanno giocare e qui le cose vanno lisce, rientrano nella cura classica senza difficoltà. Ci sono però soggetti che non sanno giocare. Per costoro la tecnica classica non funziona, e se nella tecnica classica il tandem transfert-interpretazione resta lo strumento essenziale dello psicoanalista, con chi non sa giocare si deve invece  intervenire sul quadro, sul setting, per trasformarlo in modo che risulti omogeneo allo suo stato di regressione e di dipendenza. Come si deve modificare il quadro? Lo si deve modificare in modo che l'analisi divenga il più possibile omogenea con ciò che Winnicott chiama la figura della madre sufficienemente buona, quella che sarebbe mancata a quel soggetto.

Lacan, nel suo seminario sull'atto analitico, designa questo come lapsus dell'atto. Cosa significa ? Winnicott, con l’oggetto transizionale, ha aperto uno spazio decisamente utile, e a un certo punto lo ha colmato forgiando un nuovo concetto, quello di self, che articola come vero e falso sé. Questo concetto viene a colmare una falla intravista nel soggetto supposto sapere – è la ragione per cui evidentemene Winnicott modifica la propria concezione del transfert – soggetto supposto sapere che è il punto in cui ogni strategia vacilla, e di cui Lacan parla nella sua relazione su «L'acte analytique» pubblicata in Ornicar n° 29. Questa concezione di Winnicott ha generato gran parte di quel che attualmente leggiamo su tutte le terapie che si svolgono con il gioco. Vi è in fondo l’idea che il gioco è di per sé una cura, nella misura in cui, per accoglierlo, basta ci sia un analista sufficientemente buono.

Françoise Dolto
Il problema dei genitori viene ripreso da Françoise Dolto. Per la Dolto il problema mi sembra sia il seguente: è possibile un'analisi se il bambino, nel corso della cura, trova presso i genitori una complicità inconscia concernente i suoi modi di soddisfazione? Nei modi iniziali di soddisfazione i genitori sono senz’altro complici. Si può condurre allora una cura classica se dall'inizio abbiamo questo tipo di sconfinamento? Dolto risponde no, non è possibile. Poiché è un’analista rigorosa, tiene alla possibilità di una psicoanalisi con i bambini e al tempo stesso ha l'idea di questo sconfinamento, insiste allora sulla necessità di trasformare l'implicazione dei genitori prima della cura. Bisogna che i genitori cambino posizione. In «Il gioco del desiderio» dice che se la psicoterapia psicoanalitica è la via principale per risolvere i problemi del bambino, occorre anche che il contesto sociale e familiare continui ad avere nei confronti del bambino esigenze educative effettive. In quel che chiama esigenze educative effettive si tratta di un richiamo alla simbolizzzazione. Dolto dice che la cura psicoterapeutica di un bambino, anche se deve essere individuale e svolgersi in colloqui individuali, non può avvenire senza un contatto fiducioso tra lo psicoanalista del bambino e i suoi genitori. Se questo non è possibile, bisogna allora occuparsi della coppia genitoriale e dei suoi problemi, permettendo al bambino di sfuggire alle tensioni familiari con attività all'aperto, per esempio facendo equitazione, andando sul pony, o in altri modi qualunque siano.

Per la Dolto c'è un problema con i genitori perché considera che una cura analitica si conduca sulla questione dell'Edipo, un Edipo normativo. Si può cioè esigere che i genitori occupino nella realtà il posto giusto per permettere la soluzione dell'Edipo, e se non lo occupano bisogna provare a portarceli, e se non risulta possibile, è meglio allora mettere il bambino in istituzione. Bisogna che il padre non sia impotente, che la madre non abbia emozioni incestuose, che il bambino non subisca seduzioni. Si deve poi sempre dire la verità, occorre esercitare un'autorità simbolica, ed è opportuno che la coppia si ami e si desideri reciprocamente. Si tratta certamente di condizioni forti. Che fare ?
Dolto sostiene che in fondo è una questione di quadro. Perché sia possibile una psicoanalisi con i bambini bisogna che vi sia un quadro, e questo quadro – poiché Dolto ascolta Lacan – è la legge simbolica, edipica, è la legge del padre. È questo a costituire il quadro. Se da parte dei genitori questa legge simbolica zoppica, deve essere allora rettificata, perché altrimenti non ci sarebbe il quadro.

Maud Mannoni
Maud Mannoni riprende il problema dei genitori. Lo fa basandosi su un secondo tempo dell'insegnamento di Lacan. Il problema quindi si sposta. Dove per la Dolto si trattava di educare i genitori alla dialettica del fallo, ovvero al suo valore di ripartizione del godimento – per cui: c'è chi lo ha e lo usa correttamente, c'è chi non lo ha, c'è il bambino come fallo, c'è tutto quel che si svolge sotto l'autorità del padre e della legge simbolica – Mannoni mette invece l'accento su un'altro problema che si incontra nelle psicoanalisi con bambini: il posto del bambino come oggetto nel fantasma dei genitori.
Si pone quindi lo stesso interrogativo di Dolto, ma formulato evidentemente in modo diverso: è possibile una psicoanalisi se il bambino non è disgiunto dal posto che occupa nel fantasma dei genitori, e soprattutto della madre? Di nuovo c’è il problema dei genitori, ma non più nel senso della distorsione che essi possono provocare rispetto alla norma edipica, ma ne senso di come il bambino è preso nel loro fantasma. Come se ne esce?
Mannoni parte soprattutto dall'esperienza con i bambini ritardati e psicotici dove, bisogna dire, la questione è un po' diversa, e lei le dà in effetti un'inflessione particolare. All’interrogativo posto or ora – è possibile una psicoanalisi quando il bambino è incluso nel fantasma genitoriale? – lei risponde no, non è possibile, è una condizione che occorre cambiare, e per cambiarla occorre mettersi in posizione di ricevere il messaggio dai genitori. Bisogna condurre la cura con il bambino includendo il genitore patogeno, bisogna tenerne conto. La sua tesi – critica per Lacan – è che il bambino ritardato, psicotico, e la madre, fanno corpo unico, hanno un solo corpo e un solo desiderio, e bisogna quindi occuparsi di questo aspetto. Sostiene allora che l'esperienza del transfert include l'analista, il bambino e i genitori. Leggerete o rileggerete con profitto il suo libro che s’intitola: «Il bambino, la sua 'malattia' e gli altri», un libro molto interessante.

Cosa vuol dire Mannoni quando afferma che l'esperienza del transfert include l'analista, il bambino e i genitori? Se si scopre, per esempio, che i genitori sconfinano – dice – è escluso che li si invii a un altro analista, bisogna tenerne conto qui e ora, i genitori devono essere fatti rientrare nella cura, nel quadro. Essi sono già nel quadro, ma bisogna anche tenerne conto. La sua tesi è che dove il bambino è preso come oggetto nel fantasma della madre, gli è tolta la parola. Lo si può sempre far associare, lo si può interpretare, ma la sua parola non ha valore. Non può fare esperienza della castrazione inclusa nel linguaggio. Occorre dunque che il bambino ritrovi, nel discorso dei genitori, un posto di soggetto desiderante per potersi avventurare in una cura.
E' un'esigenza forte. Su cosa si fonda? Sull'idea di una causazione diretta del sintomo del bambino: il sintomo del bambino deriva dal posto che egli occupa nel fantasma della madre. Equesto porta Maud Mannoni, che si basa sul corpus dei concetti lacaniani, a modulare la propria tecnica su questa psicoanalisi a tre, madre-bambino-psicoanalista. Per Dolto e per Mannoni si tratta sempre di dettare legge alla madre. Che sia la legge edipica del padre per la Dolto, che sia la dura legge del linguaggio, per la Mannoni, il problema è dettar legge alla madre.

Conclusioni
Alla fine di questo percorso si cristallizza un’idea: dietro al bambino degli psicoanalisti di bambini c'è sempre la madre o, piuttosto, ci sono diverse figure della madre: c’è la madre di cui si deve tenere il posto nel transfert per Anna Freud, c’è la madre donna-tutta di Mélanie Klein, c’è la madre sifficientemente buona di Winnicott, c’è la madre fuori-legge della Dolto, c’è la madre che imprigiona il bambino nel proprio fantasma rubandogli il desiderio per la Mannoni. Se questi analisti modificano, esplicitamente o implicitamente, le loro concezioni sul modo in cui il transfert è in gioco nella psicoanalisi con i bambini, è perché la madre è entrata nello studio dell'analista con il bambino, e occorre allora, in un modo o nell'altro, includerla nel dispositivo.
A questo punto, cosa ci pare sia stato trascurato?
Potremmo dire che dal lato della madre, per un verso è stata tralasciata la dimensione significante dell'amore materno, che dice che il bambino non si riduce a essere il fallo che manca alla madre, e che egli simbolizza invece la propria mancanza d’essere, il proprio desiderio; per altro verso non è stato considerato il fatto che lo statuto del bambino come oggetto condensatore di godimento non riesce a saturare il fantasma materno.
Dal lato del bambino non si è badato all’accomodamento e alla conciliazione possibili al di là della madre insoddisfatta, della sua mancanza, dell'uso di godimento che ella fa della mascherata e, in entrambi i casi, della posizione di donna di sua madre.
Quando riceviamo un bambino, egli è in impasse in una di queste dialettiche, e questa impasse fa per lui da fissazione di godimento. Si può manovrare, allora, avendo lui come guida e come mezzo di spostamento, visitando i significanti legati a questo territorio per disegnarne la mappa e per interrogare, con questi stessi significanti, la sua interpretazione del desiderio che lo ha di mira e del godimento al quale egli si presta, o da cui pensa di doversi difendere. Introduciamo l'enigma al cuore delle posizioni fissate e questo spesso scatena il tumulto dei significanti.
È il percorso al quale Lacan ci ha familiarizzato rileggendo il piccolo Hans. Con i cavalli dell'angoscia visitiamo con Hans diversi territori, non solo il territorio materno, ma anche quello paterno, esplorato sia per sé, sia per dettare legge alla madre. Che  gli psicoanalisti siano venuti a occupare il posto in cui dettano legge alla madre, di fronte alla carenza dei padri, ci fa capire che è una china da evitare, se si vuole aprire l'altro versante della psicoanalisi con il bambino.
C’è infatti un altro dibattito sul bambino: riguarda il suo rapporto con il godimento. Vediamo per esempio Hans e le sue prime erezioni, quando gli si rivela un godimento che gli è estraneo. Su questo punto Lacan parla di  «tout un truquage» a proposito dell'intervento di Freud e del padre.

Ricordiamo che il transfert non si presenta nell'esperienza analitica come una questione di tecnica. Prendere questo come punto di partenza ha considerevolmente oscurato la questione del transfert nella psicoanalisi con i bambini.
Lacan ha ristabilito l'incisività del transfert in due tempi:
-       nel primo, facendone una questione di struttura, di condizione dell'esperienza analitica. Ha valorizzato questo aspetto con il termine soggetto-supposto-sapere, inteso come istanza necessaria, che occorre produrre all'entrata di una cura analitica. Esso prende la forma di un significante che si isola, che si fa enigma e che, completato da un secondo significante, produce una creazione nuova, il Soggetto supposto Sapere. Diciamo che è una dimensione estensiva del transfert, che permette l'esplorazione delle finzioni del bambino;
-       nel secondo ha fatto del transfert una questione di incontro, di sorpresa, che si manifesta nell'esperienza attraverso la nascita dell'amore detto di transfert, o attraverso ciò che Freud nota come la presenza dello psicoanalista. La realtà dell'inconscio non è dissociabile dalla sua messa in atto come realtà sessuale, cioè realtà che taglia e che vale, che taglia il flusso delle parole e che porta il valore di godimento. È, questa seconda, una dimensione più intensiva del transfert, la sola adatta a risuonare con il reale del godimento.

Daniel Roy

Trascrizione e traduzione:  Anna Castallo
Revisione: Marco Focchi